Quelli che dicono che tutto è relativo e poi aspirano al monopolio della verità

Il tema del Meeting di Rimini di quest’anno – la verità intesa come “il destino per cui siamo fatti” – è in continuità con quello dell’anno precedente, in cui si affrontava il tema della ragione come aspirazione all’infinito. Il merito di aver posto questi temi sta nel prendere di petto questioni su cui la scienza è in affanno, perché si vuole dimenticare il fondamento del progetto della conoscenza scientifica. Il paradosso presente è che non vi è impresa di conoscenza che aspiri tanto alla verità, alla conoscenza oggettiva, persino assoluta, quanto la scienza. Eppure oggi tanti affermano che la conoscenza scientifica è relativa, anzi che il relativismo è un modello di ragione aperta e non dogmatica e quindi che l’essenza del metodo scientifico è il relativismo. Bisognerebbe chiudere in una stanza un nutrito gruppo di scientisti e porre loro come tema la conciliazione di queste due pretese contraddittorie: affermare che la conoscenza scientifica è l’unica forma di acquisizione della verità – «la scienza è la religione della verità», ha sentenziato uno di costoro – e, al contempo, che il suo metodo è il relativismo, in opposizione al dogmatismo delle religioni.
Oggi è persino possibile incontrare qualche buontempone che spiega che Husserl era un relativista. Invece, nessuno meglio di Husserl ha spiegato il significato del grande progetto attorno a cui si è sviluppata la scienza moderna: fondare una conoscenza onnicomprensiva, di cui le scienze naturali erano soltanto un aspetto, e che aveva al centro il tema della ragione, termine entro cui si raccolgono «le idee e gli ideali “assolutamente”, “eternamente”, “sopratemporalmente”, “incondizionatamente” validi», e che includeva il problema di Dio «in quanto fonte teleologica del “senso” del mondo». Di qui il profondo legame costitutivo che ha avuto la scienza moderna con la religione. Denunciando il positivismo scientifico come “concetto residuo” – è evidente l’assonanza con il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona – Husserl ha osservato che, se il razionalismo del Settecento era ingenuo e persino un controsenso, ciò non può condurre a «rinunciare al senso autentico del razionalismo».
La nobiltà della scienza è derivata dall’essere parte di una grande aspirazione all’acquisizione della verità. Non le giova essere ridotta a un insieme di tecniche manipolative o addirittura essere svilita a grimaldello dell’ateismo. Al contrario, il rapporto tra scienza e religione è stato fondante di quella grande tensione alla conoscenza e alla verità che ha caratterizzato la civiltà europea. Oggi siamo liberi dalle intolleranze che hanno provocato la contrapposizione tra scienza e religione e siamo in grado di comprendere che il meglio di quella civiltà è stato prodotto dalla sintesi tra il razionalismo di derivazione greca e la ricerca del senso del mondo derivante dalla tradizione ebraica e cristiana. Non c’è dubbio che ebraismo e cristianesimo hanno avuto un rapporto dialettico e hanno dato risposte diverse al tema dell’acquisizione della verità. Il grande merito del Gesù di Nazareth di Benedetto XVI è di riandare alle radici di tale rapporto dialettico e di vivificarne di nuovo la dinamica, nella consapevolezza che di qui occorre riprendere il cammino per dare risposte alla condizione drammatica della coscienza europea. Difatti, non serve a nulla rivendicare diritti e blasoni del passato su base ereditaria. Il pensiero non è un liquido che un “proprietario” possa racchiudere in un recipiente. È soltanto quando esce dal recipiente e riprende il suo cammino nelle menti delle persone che esso manifesta di essere ancora vivo e vitale.

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