Quella volta con Gino Strada a Kigali, Ruanda, 1994

Di Rodolfo Casadei
15 Agosto 2021
Deciso, schietto, un po' spaccone. Ho incontrato il fondatore di Emergency negli anni del genocidio in Ruanda
Gino Strada, medico, 1948 -2021

Gino Strada, medico, 1948 -2021

Ho incontrato una sola volta Gino Strada di persona, ed è stato in un teatro di guerra: Kigali, Ruanda, 1994. L’anno del genocidio che vide perire 800 mila tutsi e oppositori politici hutu per mano delle milizie paramilitari, di alcuni reparti dell’esercito e della Guardia presidenziale del regime di Juvenal Habyarimana; ma anche l’anno in cui il Fronte patriottico ruandese (Fpr), egemonizzato dai tutsi, prese il potere al termine di tre mesi di intensi combattimenti seguiti alla morte del capo dello Stato causata da un misterioso attentato missilistico contro l’aereo che lo riportava in patria dopo la firma di un accordo con l’opposizione nella vicina Tanzania.

Nel cuore del Ruanda

Emergency era appena nata, e non ricordo se c’era già stato il passaggio in tivù al Maurizio Costanzo Show. Sta di fatto che era la metà di settembre, la guerra era finita da due mesi, ed Emergency ancora gestiva la maggior parte dei reparti (primo fra tutti quello di chirurgia) di uno dei principali ospedali della capitale ruandese, dal quale la maggior parte del personale era fuggita nei mesi dei combattimenti e delle stragi, così come era avvenuto per il resto della popolazione.

Ero accompagnato da Eugenio Cocozza, un medico italiano impegnato per conto di Avsi in un progetto socio-sanitario nella vicina Uganda. L’aeroporto di Kigali era ancora chiuso ai voli di linea – atterravano solo aerei dei programmi dell’Onu e delle agenzie umanitarie dei vari paesi del mondo portando aiuti – e noi raggiungemmo il cuore del Ruanda per via di terra dal confine ugandese meridionale, con un fuoristrada.

Posti di blocco

I 500 chilometri che separano la capitale ugandese Kampala da quella ruandese Kigali non sono particolarmente disagevoli dal punto di vista viabilistico: già allora le strade erano in buon parte asfaltate. I problemi erano due: i numerosi posti di blocco in cui ci si imbatteva, dove bisognava avere la fortuna che i militari non fossero di cattivo umore; e i combattenti regolari e irregolari che facevano l’autostop agitando davanti alle vetture il proprio kalashnikov, o mostrando una bomba a mano stretta nel palmo.

In quelle stesse settimane Avsi avrebbe inaugurato i suoi programmi ruandesi, che poi sono andati avanti per decenni.

Le prime parole di Strada

Strada non era di turno in quel momento, e ci ricevette nel suo ufficietto spoglio vestito in jeans e camicia. Quando Cocozza gli riferì del suo programma in Uganda, che rientrava in un progetto affidato del ministero degli Affari Esteri attraverso la Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo, il fondatore di Emergency tagliò corto: «Non tengo rapporti con soggetti mafiosi».

Ci tenne invece a spiegare perché aveva creato Emergency, lui che fino a quel momento aveva preso parte a missioni della Croce Rossa internazionale: «La Croce Rossa non fa più quello che dovrebbe fare», disse in sostanza. «Ci sono troppi condizionamenti politici e burocratici. Servono organismi più snelli, più rapidi, più disposti ad assumersi rischi».

Medici che sanno il fatto loro

Gli chiesi cosa pensava di Medecins sans Frontières (Msf), che di fatto era nata al tempo della guerra del Biafra (1967 – 1970) proprio per permettere di far giungere aiuti sanitari e non solo in regioni del mondo dove la Croce Rossa faticava ad intervenire perché il governo nazionale non permetteva interventi nel territorio sotto controllo ribelle. Ed ora operava anche in Ruanda.

«Medecins sans Frontières è la numero uno per la logistica, ma il livello dei loro medici è pietoso. Sono in grado di trasportare un ospedale da campo con tutte le attrezzature per la chirurgia di guerra in qualunque luogo del mondo, ma poi sbagliano le diagnosi delle patologie più comuni», disse. Altri medici italiani che incontrai in Ruanda nei dieci giorni del mio soggiorno mi confermarono quel giudizio: i medici di Msf erano spesso giovanotti alle prime armi, capaci di diagnosticare come insufficienza cardiaca quello che era il marasma di uno stato di denutrizione.

«Io voglio solo medici altamente qualificati e infermieri che sanno il fatto loro!», esclamò con quell’aria fra il torvo e lo spaccone che tanti gli hanno poi visto in tivù. Insistette sul fatto che il suo non era volontariato: «Io pago la gente come si pagano gli esperti internazionali della cooperazione. Chi viene qui da me sa che dovrà spaccarsi la schiena in sala operatoria e in corsia, ma quando avrà finito il turno andrà a riposarsi in una casa con tutte le comodità possibili, e se la sera vorrà bersi una bottiglia di whisky, io gliela metterò a disposizione!». Palammo poco della nuova situazione politica che si era creata in Ruanda, ma quanto bastò per sentirgli dire: «Questi che sono saliti adesso al potere non sono affatto meglio di quelli di prima».

In sala operatoria

Quindi andammo a visitare le corsie debordanti di civili feriti di guerra, per lo più vittime delle mine antiuomo: uomini anziani, donne e bambini. Ma non posso dire che rimasi sconvolto, né che lui lo fosse. Condividevamo quello stesso distacco professionale dalle emozioni che hanno in comune medici e reporter in zona di guerra. Cominciammo facendo un salto direttamente in sala operatoria, divisa in due da un atrio che permetteva di vedere quello che accadeva nella parte più interna attraverso una grande vetrata.

Ebbi il cattivissimo gusto di scattare una foto col flash al medico italiano e agli assistenti africani che stavano medicando il moncone di un paziente al quale avevano appena staccato la gamba martoriata. Si voltarono verso di me colti di sorpresa, ma appena videro Gino Strada al mio fianco si tranquillizzarono, lo salutarono e scambiarono con lui un paio di battute.

Vietate le armi

All’ingresso delle corsie c’era appiccicato sulla porta basculante il famoso adesivo del kalashnikov sbarrato, e la scritta “weapons inside forbidden”. Non credo che l’avviso avrebbe mai impedito a un ufficiale dell’Fpr di mettere piede armato in ospedale – anzi: si sarebbe sentito offeso e avrebbe creato problemi – ma forse sui soldatini esercitava un qualche potere di dissuasione.

Di là dai due battenti si aprivano sale e corridoi ingombri di letti occupati dai feriti. La maggior parte aveva perso una o entrambe le gambe calpestando una mina mentre lavorava nei campi o mentre giocava coi coetanei; alcuni avevano ferite da arma da fuoco, altri avevano perso la vista a causa di schegge di mine o di colpi di mortaio.

Il meno cinico tra noi

Cominciai a scattare foto – chiedendo sempre il permesso ai soggetti interessati in francese o in inglese, o con l’aiuto di un interprete – avendo bene in mente una scaletta editoriale: l’anziano, la giovane donna, il bambino, ecc. La giovane donna che avevo scelto si tirò su con fatica aggrappandosi con le mani alla maniglia sopra al letto, per mostrare all’obiettivo la mutilazione che aveva subìto a una gamba. La smorfia di dolore si trasformò in un sorriso spontaneo quando Gino Strada le fece sottovoce un complimento, accompagnato da un gesto che indicava abilità fisica. Capii in quel momento che il meno cinico fra noi due era lui, contro ogni apparenza. Accettai il verdetto.

«E adesso un bambino», dissi asciutto dopo avere scattato. Non si scompose, disse solo «sì», e trovò i bambini mutilati da mine antiuomo che andavo cercando. Io avevo un metodo molto semplice per evitare gli incidenti peggiori quando si andava in avanscoperta su qualche collina dove si era combattuto: lasciavo camminare qualcuno davanti a me.

«Vuole bere té»

Senza Strada io e Cocozza proseguimmo la visita negli altri reparti dove c’erano italiani di Emergency che lavoravano. Non erano tutti di altissimo livello. Una puerpera estenuata dal parto continuava a ripetere flebilmente una frase in kiswahili, senza nessuna reazione da parte dell’infermiera italiana. «Sta chiedendo di poter bere un té», disse il medico italiano. L’infermiera rimase sbalordita: «Mi state prendendo in giro?». «No», rispose lui. «Fa parte della loro tradizione. Fidati, conosco un po’ la lingua».

Un accompagnatore premuroso

Qualche mese dopo Gino Strada abbandonò in tutta fretta il Ruanda dopo aver raggiunto l’aeroporto internazionale a bordo di un blindato. Alcuni cooperanti italiani lo avevano avvisato che i nuovi governanti ruandesi non erano affatto contenti di quello che lui diceva in giro, criticando le loro politiche sanitarie e non solo quelle. Fecero capire a quei cooperanti che se non si toglieva di mezzo avrebbe fatto una brutta fine.

Uomo avvisato, mezzo salvato. Strada si salvò, e poi fece e disse tante tante cose nel resto della sua vita. Ma quel giorno di settembre fece semplicemente l’accompagnatore premuroso di un reporter di una testata minore che voleva raccontare la tragedia del genocidio e quello che stavano facendo missionari e cooperanti italiani per le vittime di quell’inferno. Un chirurgo di guerra e un reporter di guerra che si fecero compagnia per un breve tratto di strada.

Foto Ansa

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