
Terra di nessuno
Quella parola troppo vera (conversazione in un caffè milanese)
Milano, febbraio – Una mattina di sole dalle parti del parco Sempione. Un caffè elegante. Entrano due signore: una con i capelli grigi, distinta, sui sessanta, ne conduce a braccetto un’altra molto anziana, in visone chiaro, cappello di visone uguale, occhiali molto neri. La cassiera: «Oh ma che sorpresa, la signora Anna, quanto tempo, che brava la sua figliola che la porta a spasso in una bella giornata come questa…». La figlia sorride, spinge avanti la madre come farebbe con una bambina timida: «Te la ricordi mamma la signora Pina? Dove venivi sempre a comprare i pasticcini? Te la ricordi, eh?».
La madre annuisce, silenziosa. «E come sta signora Anna, come sta? Sempre elegante eh, sempre perfetta…» continua la donna alla cassa. Quella di rimando: «Sono vecchia, vecchia, sa quanti anni ho? Sono 92…». La cassiera: «Ma è sempre in forma però, sempre in ordine, e bella…».
Profumo di caffè, i pasticcini allineati dietro il banco in ordinate piccole legioni; e confetti pastello, azzurri e rosa, che è quasi tempo di prime comunioni. «Vuoi qualcosa, mamma?» chiede la figlia. Lei, stanca: «No, non ho voglia di niente». Poi, come in un sussulto di sincerità, alla cassiera: «Non ho più voglia di niente. Non ho mai fame, non ho più voglia di vedere nessuno. Non mi importa di niente» – e, debolmente, piange. «Via su signora, non faccia così…» fa la cassiera, con appena quella punta di imbarazzo di quando, tra le nostre parole leggere, se ne incontra una vera. Ma la signora insiste, testarda: «Sono vecchia, cosa resto qui a fare?». La figlia, severa: «Via mamma non dir così, smetti di piangere!». (A bassa voce alla cassiera: «A 92 anni purtroppo bisognerà pur morire, non è vero?»).
Ma la signora Pina insiste, come fosse intollerabile che qualcuno parli di certe cose nel suo bel caffè. «Via signora, è ancora così bella, elegante». (Io mi immagino un grande guardaroba, di quelli alti, dove allineati stanno pellicce e vestiti da sera e abiti dal taglio perfetto, intatti da anni, in un lieve odor di naftalina). «E mi dica – continua la cassiera, cercando disperatamente qualcosa di cui parlare – ad Alassio, non ci va più nella sua casa di Alassio?». Scuote la testa la vecchia signora: «Ad Alassio? No, troppo lontano…». («Ma l’ha portata dal medico?», domanda a bassa voce la signora Pina alla figlia. «Sa, qualche pillola, magari…». La figlia scuote la testa come a dire che si è già provato di tutto: «A 92 anni, sa, che vuol fare…»). Poi le due se ne vanno. E se quell’educato pianto fosse una affannata domanda? Con una donna come questa tutte le nostre consuete parole sono usurate e spuntate. Ma ci sarà un prete, un amico che osi, in questo bel quartiere, ricordarle il solo nome, la sola speranza che non decade?
La signora Anna si allontana con la figlia, a passi brevi. Proprio un bel visone, e il cappello uguale, e scarpe di coccodrillo – comprate, certo, in Montenapoleone.
7/2013
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La reazione della cassiera è sintomo del tempo in cui viviamo. La signora Anna non vuole più vivere? Poverina, non ci sta più con la testa, una pillola potrebbe risolverle il problema. Le parole della signora Anna invece che essere emblematiche del grido umano, divengono una patologia. Non si è più neanche in grado di tacere e ascoltare davvero cosa la gente ha da dire, fosse anche una vecchietta in un caffè, in un giorno qualsiasi. Perché l’esigenza che si ha a 92 anni è la stessa fin da quando si nasce, è non è “curabile”. Abbiamo tutti bisogno di ragioni per restare in questo mondo, di una mamma quando si è in fasce, di una figlia quando si è vecchi, e abbiamo bisogno del “solo nome, la sola speranza che non decade”.
Un compito ed un faro: questi hanno sorretto mia madre fino oltre i 98 anni. Rimasta vedova a 52 anni, ha cresciuto prima noi e poi ha amorevolmente seguito i nostri figli. Quando mia moglie ci è stata troppo presto strappata via nel giro di due anni, si è fatta madre dei miei – compreso le due figlie che avevamo in affido – accompagnandoli negli studi fino alla laurea e nella vita fino al matrimonio, felice dei pronipoti che arrivavano.L’ultimo compito è stato vedere il minore dei miei figli completare gli studi universitari: dopo poco più di un mese della sua laurea ci ha lasciato. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il faro della sua vita, quel nome che ci ha insegnato ad amare. Come ci diceva sempre: più che una Speranza, una Certezza. Da questa certezza veniva la serenità che ha caratterizzato la sua vita, alla quale anche noi ci affidiamo.
Federico L. Montanari
P.S. Farà piacere a Margherita Corradi sapere che mia madre è stata fino all’ultimo (tre giorni prima della fine) attenta lettrice di Avvenire, ed in particolare, estimatrice dei suoi scritti.
Mi ha commosso questo articolo, come molti di Marina Corradi, che ha il dono di toccare il cuore senza sdolcinatezze iperglicemiche. Imbarazzo ed inadeguatezza di fronte alle lacrime e le parole forti e sussurrate di chi si approssima al suo destino ineludibile, la morte. E allora, superficiali e amene, scorrono le nostre parole; sciocche pure quelle con le quali vorremmo ostentare interessamento (l’ha portata dal medico?). Dovremmo imparare – e lo dico a me innanzitutto – ad accogliere con serietà e calore lacrime e parole di nostalgia per la vita che se ne va e infondere speranza per quella Vita che non ci sarà mai tolta. Ma questo richiede un cammino dello spirito, un cammino sulle orme di Cristo.