
Terra di nessuno
Quanto ci è stato dato
Articolo tratto dal numero di febbraio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Sugli scaffali della libreria in camera c’è polvere. Prendo un panno e comincio a pulire. Mi viene fra le mani una cornice con una foto che ho cara. L’ha fatta mio marito: sono i tre bambini, vent’anni fa, e io, in montagna in Val di Fassa, in un marzo pieno di sole. Mi stanno attorno come una cucciolata e io ho lo sguardo di una gatta che, fiera, li difende. Sorrido, nel rivedermi. Ero proprio così: una gatta felice e guardinga, pronta a graffiare chi mi toccasse i piccoli. (Guardo le mani che stringono Caterina e Bernardo. Dicono chiaramente: questi sono miei. È ciò che madri e padri credono, quando i figli sono piccoli. Un’assoluta illusione. I figli ci sono solo affidati).
Pietro, biondo, il più grande, guarda nell’obiettivo, serio. Bernardo, un piccolo orso bruno, ride e mostra la lingua, giocoso. Caterina è proprio un cucciolo, rannicchiata addosso a me. Dietro, una striscia di neve che va sciogliendosi nel primo tepore della primavera, e gli abeti delle Dolomiti. Mi pare di sentirne ancora il profumo di resina, al sole che già scalda.
Resto con la cornice in mano, a osservarla, per un minuto. Stai perdendo tempo, mi dice una parte di me, fastidiosa. La zittisco: il tempo, alla mia età, serve anche per fare memoria, in questa grande casa ormai quasi vuota, e spesso silenziosa.
Dio, mi dico, quanto ci è stato dato in questi anni, pure faticosi. Quanto ci hai dato. Che figli, a me, che pensavo che non ne avrei mai avuti, a mio marito, a trent’anni ancora così timido e solitario.
Quanto hai donato, di meraviglia e tenerezza, a me, che, mi pare, non meritavo niente. E questo istante immobile, in piedi, con una cornice polverosa in mano, si fa gratitudine, e quasi spontanea preghiera. Come ha detto Benedetto XVI: fare memoria del bene ricevuto, per ringraziare. Come facevano gli ebrei scampati dalla prigionia in Egitto e miracolosamente salvati dal mare. E quella gratitudine era la terra, che avrebbe germogliato un popolo.
E: gratitudine, gratuità, letizia, era la “formula” contenuta in un piccolo straordinario libro di Giussani, Il tempo e il tempio. Lo avevo tanto nelle mani, quando Pietro era piccolo, che un giorno con una forbice me lo fece a pezzi. L’ho ancora, tutto tagliato da un figlio di due anni, geloso. Quella formula mi si fissò in mente, come un enigma che dovevo decifrare. Io, sempre malinconica, io nata come con una radicale nostalgia di qualcosa di ignoto, mi fermavo pensierosa davanti a quella successione di parole.
Gratitudine? E di che? Di un’infanzia dolorosa, di mia sorella morta bambina, di mia madre persa nel suo dolore? Gratitudine di me, forse, così fatta male, e irrequieta? Ma quei tre figli che ci sarebbero stati dati mi avrebbero insegnato la gratitudine. Molto lentamente: è duro, anchilosato, il cuore.
Stamattina però con quella fotografia nelle mani forse finalmente capisco: gratitudine piena, e di qui lo stupore nel riconoscere quanto, per nulla in cambio, mi è stato dato. Gratuità: per nulla in cambio. Letizia? Quella no, non ancora. La malinconia con cui sono nata è sempre la più forte. Se non per un’ora, in una mattina di grazia.
Ma forse, ho ancora un po’ di tempo. Forse la vita intera serve, per arrivare alla letizia di cui parlava don Giussani.
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