
«Quanto ad amore all’Iraq, noi cristiani siamo maggioranza»

L’arcivescovo siro-cattolico di Mosul, Youhanna Boutros Moshe, abita in un monastero circondato da uliveti a pochi chilometri da Qaraqosh con i tre frati dell’unica congregazione siro-cattolica al mondo: i Fratelli di Gesù redentore. Ma un complesso di sei container e una cappella adattata in un prefabbricato non è esattamente quello che si usa chiamare “monastero”. Dopo il passaggio dell’Isis, che distrusse anche il vecchio convento a Qaraqosh, i frati vissero in esilio a Erbil come tutti gli altri cristiani della Piana di Ninive. Sconfitti i jihadisti, la congregazione non ha trovato di meglio che trasferire sei container dal Kurdistan iracheno nella campagna di Qaraqosh, su un terreno della famiglia di monsignor Moshe. Quasi a voler testimoniare e condividere fino all’estremo le sofferenze dei cristiani, i frati e l’arcivescovo di 77 anni non hanno mai smesso di vivere come in esilio. L’ambiente, per quanto povero, è curatissimo: le aiuole sono distribuite a forma di pesce e di croce, le piantagioni nell’orto disposte lungo perfette file parallele e le mucche possono riposare in un bel complesso in muratura. «La loro stalla è più confortevole delle nostre stanze», scherza fra Wissam, senza però allontanarsi troppo dalla verità.
Monsignor Moshe è stato l’ultimo ad abbandonare la città il 6 agosto 2014 e lo ha fatto solo quando un proiettile sparato da una chiesa vicina, già occupata dai jihadisti, ha raggiunto la stanza dove viveva in seminario, infrangendo il vetro della finestra e conficcandosi nel muro. Allora ha suonato le campane della chiesa del seminario e ha abbandonato la città con la morte nel cuore. Un dolore che solo la visita di papa Francesco ha potuto lenire: «Il suo arrivo è stata una grande grazia di Dio per l’Iraq, per la Piana di Ninive e per Qaraqosh», spiega accogliendoci in un container adattato a ufficio. «Il Papa è venuto qui, a casa nostra, a partecipare alla nostra gioia e anche al nostro dolore. Questo dimostra che lui pensa a noi e rende visibile il suo amore per noi».
Perché per voi cristiani la visita del Pontefice era così importante?
Perché avevamo bisogno di essere incoraggiati a proseguire la nostra missione in questa terra.
Quale missione?
Proclamare il Vangelo di Gesù a tutti. Noi siamo cristiani da sempre, fin dai primi secoli, e i nostri padri hanno versato il loro sangue per restare qui. Noi vogliamo restare fedeli ai nostri padri e al loro sangue, testimoniando il coraggio, la speranza e l’amore. Il nostro obiettivo non è convertire gli altri, ma mostrare come si vive da cristiani e rappresentare un richiamo per tutti a vivere allo stesso modo.
La presenza dei cristiani in Iraq è purtroppo sempre più esigua. Che valore ha per il paese?
È vero, la comunità si è molto ridotta. Fino a pochi anni fa eravamo un milione e mezzo ma penso che oggi in Iraq non ci siano più di 200 mila cristiani. La nostra presenza qui però ha un senso e deve essere salvaguardata. Si dice spesso che i cristiani sono minoranza rispetto ai musulmani, forse l’un per cento del paese. Ma io dico con forza: no! Noi siamo il dieci, venti, cinquanta, sessanta per cento per onestà, fedeltà e amore della patria. Non conta il numero: anche se siamo pochi, la nostra presenza è estremamente positiva.
Quando nel 2014 avete lasciato tutto pur di mantenere la fede, la vostra testimonianza ha scosso il mondo. Che cosa vi ha dato la forza di farlo?
Non proveniva certo da noi: è il buon Dio che dona la forza di perseverare nella fede e di restare in questa terra. Ma se i nostri padri hanno versato il sangue pur di continuare a vivere qui da cristiani, perché non dovremmo farlo noi?
Se vi foste convertiti all’islam, anche solo per finta, ora la vostra vita almeno da un punto di vista materiale non sarebbe così difficile.
I jihadisti ci hanno proposto di rimanere nelle nostre case, ma da schiavi, pagando la jizya, una tassa. Ma come? Noi che siamo stati liberati da Gesù, avremmo dovuto vivere come schiavi? Era impensabile. Con la grazia di Dio, abbiamo saputo rinunciare a ciò che è meno importante per mantenere ciò che è vitale. Un messaggio forte anche per i nostri fratelli europei.
Molti giovani però non vogliono più tornare nella Piana di Ninive.
La metà dei giovani di Qaraqosh è già rientrata. Tante famiglie vivono ancora a Erbil o Baghdad, altre si sono trasferite all’estero: Giordania, Francia, Canada, Australia. Ma c’è anche chi rientra da questi paesi. Altri ancora lo faranno se la vita migliorerà un po’. Abbiamo bisogno di sicurezza, certo, ma soprattutto di lavoro. Se i giovani vedranno che qui c’è lavoro, sono certo che avranno il coraggio di tornare e restare. Noi abbiamo bisogno di loro.
Lo Stato iracheno vi sta aiutando?
Lo Stato dice di aiutarci ma la verità è che non fa niente. Se la milizia di giovani cristiani non mantenesse la sicurezza qui la vita sarebbe davvero difficile.
Durante la visita del Papa non ci sono stati problemi.
È la dimostrazione che si può vivere in sicurezza. Speriamo che serva a far tornare molti emigrati.
L’Occidente come può aiutare i cristiani iracheni?
Prima di tutto con la preghiera, ovviamente, ma anche dal punto di vista materiale. Tante organizzazioni e tanti fedeli di tutto il mondo ci stanno aiutando a ricostruire con donazioni.
L’Europa vi ha aiutato?
Solo l’Ungheria e noi la ringraziamo di cuore.
È vero che ha rifiutato fondi per rifare le chiese, dicendo che prima bisognava ricostruire le case per le famiglie?
Sì. Ho sempre detto che i soldi andavano spesi prima per le case delle persone. Senza comunità non esiste la Chiesa. Ho avuto ragione: gli stessi giovani che sono tornati ricostruiscono ora le nostre chiese.
Le chiese rinnovate di Qaraqosh, a partire da quella dove il Papa ha recitato l’Angelus, sono forse più belle di prima.
È la dimostrazione che l’Isis ha perso e la nostra fede ha vinto. Dirò di più: stiamo costruendo anche chiese nuove. Per commemorare la nostra emigrazione e il nostro ritorno intitoleremo un tempio a Nostra Signora della speranza.
Dopo il passaggio dell’Isis, che rapporti avete con i musulmani?
Le relazioni stanno tornando buone. E vorrei sottolineare che ci sono tanti musulmani che ci hanno aiutato a ricostruire. Ad esempio, la chiesa di San Giovanni è stata rifatta con i fondi della comunità islamica, che ci ha donato 60 mila dollari. Con la loro generosità hanno dimostrato che non tutti i musulmani sono estremisti. Un rapporto di amicizia e fratellanza è ancora possibile.
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Il viaggio di Tempi in Iraq è stato reso possibile grazie alle donazioni dei lettori al Fondo Più Tempi, nato per sostenere le iniziative di utilità sociale legate al nostro giornale. Per aderire: dona.perildono.it/fondo-piu-tempi.
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