
Quando il delirio di onnipotenza della giustizia si ritorce contro noi magistrati

L’autore di questo articolo, Giacomo Rocchi, è magistrato e consigliere della Corte di cassazione.
Una tragica vicenda che ha portato alla morte violenta di una giovane madre ha trovato pochi giorni fa un esito giudiziario che impone qualche riflessione.
Il 23 luglio 2002 una donna di 37 anni, madre di due figli, viene uccisa a Palermo con due colpi di pistola dal suo ex convivente di 45 anni che, subito dopo, si toglie la vita con la stessa pistola. L’uomo da tempo chiedeva alla donna di riprendere la relazione da lei interrotta e la perseguitava, tanto da indurla a presentare una denuncia per molestie e minacce (l’uomo aveva risposto con un’altra per ingiurie, minacce e lesioni).
Nell’autunno del 2001, l’abitazione del padre della donna era stata violata e danneggiata, con il furto di una fotografia di lei; le indagini, a seguito della denuncia, si erano indirizzate verso l’ex convivente, la cui abitazione era stata perquisita nel mese di dicembre, con il rinvenimento di alcune lettere, già pronte per essere inviate a un giornale, all’ex marito e ai genitori della donna, nelle quali l’uomo faceva riferimento all’omicidio-suicidio. I carabinieri lo avevano segnalato al pm: l’uomo avrebbe potuto diventare «un assassino con istinti suicidi» della ex convivente; si chiedeva, quindi, una perizia psichiatrica in via d’urgenza e si ipotizzava all’esito un trattamento sanitario coattivo; rispettosamente «si restava in attesa di eventuali disposizioni di codeste Autorità Giudiziarie».
Passano i mesi, le indagini per il danneggiamento e il furto nella villa proseguono (una consulenza sulle impronte sopra una torcia elettrica), l’uomo scrive altre lettere di tenore diverso… ma otto mesi dopo giunge l’esito tragico.
Dichiarando inammissibile il ricorso, la Cassazione ha reso definitiva la condanna dello Stato italiano al risarcimento ai figli della vittima dei danni cagionati dall’inerzia del pubblico ministero titolare delle indagini.
Perché il comportamento di quel pm è stato ritenuto negligente? I giudici affermano che egli avrebbe dovuto quanto meno interrogare l’imputato, «al fine di appurare quale fosse il suo stato di salute psichica all’ulteriore scopo di provvedere alla nomina di un consulente o sollecitare l’adozione di un trattamento sanitario obbligatorio»; avrebbe potuto, poi, chiedere al giudice il ricovero provvisorio in un ospedale psichiatrico. Di fronte all’obiezione che l’uomo non aveva alcun precedente psichiatrico, la Corte d’appello ha ritenuto sufficiente «una forma meno eclatante di malattia mentale, quale la ossessione psicologica».
Ma per condannare qualcuno al risarcimento dei danni (in questo caso lo Stato per i danni provocati dalla condotta professionale del magistrato) non basta un comportamento scorretto o negligente: è necessario dimostrare che esso ha cagionato l’evento. Lo Stato è stato condannato perché si è ritenuto che la condotta del pm ha provocato la morte della giovane madre insieme a quella dell’omicida-suicida. Secondo i giudici, quel pubblico ministero era in grado di impedire l’omicidio, quindi era obbligato a impedirlo!
Le perplessità su un’effettiva negligenza del magistrato nell’indagine sono più che legittime: l’interrogatorio dell’indagato non è più un atto obbligatorio, così come non lo sono le richieste di trattamento sanitario obbligatorio o di ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; per di più, il pm avrebbe potuto solo chiedere tali misure, ma sarebbe stato un giudice a decidere. All’epoca, inoltre, non esisteva il reato di stalking né erano previste misure specifiche per quel tipo di comportamento.
Del resto: è obbligatorio ricoverare in ospedale psichiatrico tutti gli uomini abbandonati che tempestano di telefonate o di insulti le loro vittime e scrivono lettere nelle quali minacciano le condotte più terribili?
E davvero si può affermare che quelle attività omesse avrebbero impedito il gesto estremo che l’uomo aveva messo in atto? Come non ipotizzare che, nel caso il pm avesse convocato l’uomo per l’interrogatorio, questi non avrebbe addirittura anticipato il suo proposito? E cosa avrebbe fatto durante il tempo (almeno 30 giorni) per una perizia psichiatrica? E il pm, come poteva rendersi conto dello stato di salute psichica dell’uomo, che si sarebbe presentato all’interrogatorio con il suo avvocato, ben preparato e impeccabile?
Ecco, soffermiamoci su questo ultimo aspetto. Forse, in quegli otto mesi, molte altre persone o istituzioni avrebbero potuto aiutare l’uomo a non mettere in atto il suo proposito: gli stessi carabinieri, innanzitutto (non devono forse prevenire la consumazione dei reati?), e, ancora di più, chi non tolse coattivamente all’uomo la pistola che – nonostante la segnalazione dei carabinieri! – egli poté usare otto mesi dopo. E poi: non c’era nessuno che lo conosceva e lo frequentava, che poteva aiutarlo davvero, che poteva parlare con lui senza sottoporlo a interrogatorio?
Eppure, secondo i giudici, solo quel pm chiuso nel suo ufficio e travolto dai fascicoli (sapeste quante sono le denunce per molestie, minacce e ingiurie…) doveva intervenire; se lo avesse fatto, avrebbe bloccato il proposito omicida!
Una ricostruzione della vicenda sganciata dalla realtà che fa intravedere un pregiudizio.
Che ruolo hanno i magistrati nella società, come si vedono, come vengono visti? Ma come: lottano contro la criminalità organizzata e la corruzione, rovesciano governi, fanno chiudere le aziende, le amministrano secondo i loro criteri; e ancora, decidono che un uomo è donna anche se non lo è, di chi è figlio un embrione scambiato, che un bambino può vivere con due uomini, che la famiglia è diversa da quella che si pensava, che vanno benissimo pratiche che la legge vieta… tutti pendono dalle loro labbra, i potenti scrutano il significato recondito dei loro provvedimenti, la gente sta con loro; sono la “crema” della società, il suo nucleo pulsante e propositivo… e non riescono a impedire a un uomo di mezza età che ha perso la testa di uccidere e uccidersi, così come aveva promesso? Le sentenze hanno affermato che un magistrato poteva impedirlo e doveva impedirlo!
E invece no. Di fronte al male assoluto (come definire altrimenti il gesto di quell’uomo?) ci scopriamo piccoli funzionari dello Stato, impotenti o con armi sguarnite, pieni di fondate giustificazioni, utili solo a raccogliere i cocci e a irrogare, quando serve (qui non serviva: l’omicida si era suicidato), una “giusta” pena. Certo: chiamati ad essere attenti e diligenti, preparati e consapevoli, ma non (sempre) in grado di far vincere il bene.
Forse la coscienza dei nostri limiti aiuterebbe noi e i cittadini.
Foto Ansa
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1 commento
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…no! Non sono d’accordo con questo articolo (ed altri sulla stessa linea comparsi su questo giornale)
Va bene ammettere l’impotenza umana contro il mistero del male, ma ciò non ci esonera da combattere il male con tutte le nostre forze…
In Italia abbondano casi di detenzione preventiva di innocenti o presunti tali (penso al caso Sollecito ed Amanda Knox, penso a Bossetti e tanti altri), persone tenute in isolamento per semplici sospetti o prove scricchilanti…
Qui siamo di fronte a reati già commessi (stalking, furto, minacce, etc.). Siamo di fronte a minacce ben precise e ad un piano di morte… limitare per un mese, in attesa di perizia, la libertà di questo uomo, era così grave… meglio risarcire per ingiusta detenzione , che contare i cadaveri dopo.
Inoltre, in Italia abbondano scorte di ogni tipo: politici, assessori, magistrati, giornalisti ed ex tali… ci voleva molto a mettere una scorta a questa donna? Se le scorte si basano su minacce, cosa mancava a questa donna per ottenerla? …forse mancava la poltrona politica da cui chiederla?
Eh, no! Un discorso è l’imprevedibilità del male, ma qui si poteva agire e siccome non si è agito è giusto che ci siano provvedimenti.