Quando Germania-Ungheria fu decisa dai tacchetti

Oggi si sfidano a Euro 2024 le due Nazionali che nel 1954 si giocarono il Mondiale in una finale epica sotto la pioggia in cui i tedeschi, sfavoriti, indossarono per la prima volta le scarpe con tacchetti interscambiabili. E vinsero

Il tapiro Theo ha mangiato dal pallone con i colori ungheresi all’Allwetterzoo di Münster (foto Ansa)

Il cielo sopra al Wankdorfstadion di Berna ha lo stesso colore della ghisa. Piove a dirotto. Da ore. Con una severità veterotestamentaria. La maggior parte delle macchine che gira intorno allo stadio ha la targa tedesca. Qualcuno scende e prova ad assicurarsi uno degli ultimi biglietti rimasti. Arrivando addirittura a barattare un tagliando con un orologio d’oro. Perché tra poche ore la Germania Ovest affronterà l’Ungheria nella finale dei Campionati del Mondo del 1954, e nessuno vuole correre il rischio di mancare l’appuntamento con la Storia.

L’Europa sta vivendo settimane complesse. Cinquantacinque persone sono morte per via del caldo. A Stoccolma la gente sviene per strada. Solo in Westfalia 22 adulti e 6 bambini sono annegati nei fiumi e nei laghi della regione. Cercavano di mettersi al riparo dall’aria bollente che fa segnare 35 gradi all’ombra. Dopo aver lasciato la Conferenza di Ginevra Winston Churchill si prepara a volare negli Stati Uniti per chiedere a Eisenhower l’ingresso della Germania nella Nato. Una berlinese di 25 anni, Christel Schaak, si è aggiudicata il titolo di Miss Europa nel concorso indetto a Vichy, dieci anni prima sede della Repubblica collaborazionista.

L’Ungheria di Puskas troppo forte per la Germania?

Sono nomi e luoghi che raccontano una storia recente ma allo stesso tempo lontana. Soprattutto per chi sta cercando di ricostruirsi una vita fra le macerie della guerra. È anche per questo che la sfida di Berna acquista un significato particolare. È una finale, ma anche una non-partita. Perché l’Ungheria di Puskas sembra troppo forte per i tedeschi, sia sotto il profilo tecnico sia sotto quello tattico. Il giorno prima della partita gli organizzatori del torneo avevano chiesto a quaranta giornalisti chi fosse la favorita. In 39 avevano indicato l’Ungheria. D’altra parte, le due squadre si erano già affrontate nel girone del Mondiale. E il verdetto del campo era stato piuttosto chiaro. L’Aranycsapat, “l’Ungheria d’oro”, non aveva solo vinto, aveva seppellito gli avversari sotto un pesantissimo 8-3.

A fine partita, però, in pochi avevano avuto voglia di esultare. Quando il senso del match si era esaurito ormai da un pezzo Werner Liebrich era entrato duro sulla caviglia di Ferenc Puskas. Il movimento dell’articolazione dell’ungherese era stato orribile. Così come il suono del contrasto. Il dolore era insopportabile. E la medicina sportiva del tempo aveva prescritto un lungo periodo di riposo nella speranza di riavere la punta per la finale. Alla fine Puskas camminava a fatica. Ma il commissario tecnico Gusztáv Sebes non aveva nessuna intenzione di rinunciare al suo uomo più talentuoso. Anche per questo la pioggia sul prato del Wankdorfstadion viene accolta dalle due squadre con sentimenti opposti.

2-2 in pochi minuti. Poi…

Il campo è zuppo, pesante, scivoloso. L’Ungheria ha paura che la sua tecnica possa essere diluita. La Germania capisce che può avere una chance se punta sull’atletismo. Non a caso quella pioggia ostinata viene chiamata Fritz Walter weather, il clima di Fritz Walter. È molto più di una battuta. Anzi, è un piccolo compendio di quello che succederà in campo. Mentre a Berlino la gente si raggruppa intorno ai taxi fermi per ascoltare la partita alla radio, l’Ungheria è già avanti 0-2. Gol di Puskas. Raddoppio di Czibor. E dopo appena 8 minuti la partita sembra già chiusa, la storia già scolpita. Invece le cose cambiano in fretta. E molto.

Al 10° Morlock accorcia le distanze. Poi al 18° Rahn segna il gol del pareggio. È l’inizio di una sfida tutta nuova. Le squadre cercano di non scoprirsi e trasformare in rete anche la più piccola delle occasioni. A fare la differenza però è l’acqua che continua a cadere dal cielo. A cavallo del 1100 la Santa tedesca Idegarda di Bingen paragonava la pioggia all’energia vitale dell’anima che si traduce nello sbocciare del corpo. Invece in quella partita succede qualcosa di molto più terreno e profano. E ha a che fare un marchio.

Le scarpe con i tacchetti indossate dalla Germania

Tutto parte da una lavanderia a Herzogenaurach, in Baviera. È lì che nel 1924 due fratelli, Adolf e Rudolf Dassler, figli di un calzolaio locale, iniziano a fabbricare scarpe sportive. Il primo le disegna e le crea. Il secondo si occupa della distribuzione e della parte amministrativa. È un piccolo paradiso che la Seconda Guerra Mondiale trasforma in un inferno. I due fratelli sono divisi da una frattura insanabile. Meglio andare ognuno per fatti propri. Rudolf crea così quella che diventerà al Puma. Adolf, detto Adi, dà vita all’Adidas. I due stabilimenti sono lontani appena cinquecento metri, ma sembrano distanti anni luce. Leggenda vuole che Herzogenaurach venga chiamata la «città dei colli girati», perché ogni abitante si torceva per guardare che scarpe indossassero gli altri.

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La storia cambia prima del Mondiale. L’Adidas diventa il fornitore ufficiale della Germania Ovest. Così Adolf dota la Mannschaft di un paio di scarpette rivoluzionarie. Per prima cosa sono più leggere, grazie all’accostamento di materiali sintetici e cuoio. Poi sono realizzate con una suola più stretta, senza puntale e con una tomaia con un taglio innovativo che conferiva una maggiore flessibilità. La novità più interessante, però, è un’altra. Perché le scarpette dell’Adidas sono state costruite con i tacchetti intercambiabili, che potevano essere avvitati in maniera diversa o sostituiti per adattarsi alle condizioni del campo. E mentre a Berna l’Ungheria deve faticare per tenersi in piedi, la Germania è piantata sul terreno.

«Il Paese ha ritrovato la sua autostima»

Nel secondo tempo la Squadra d’Oro sfiora più volte il gol del vantaggio. Solo che ogni suo tentativo si infrange contro Toni Turek. O contro il palo. O sulla traversa. A sei minuti dalla fine Rahn fa partire un diagonale rasoterra che finisce in fondo al sacco. È il 3-2 per la Germania. È qualcosa di molto vicino a un miracolo. Puskas segna il pareggio, ma la sua rete viene annullata per fuorigioco. Alla fine la Germania, esclusa dal Mondiale in Brasile del 1950, vince il suo primo titolo. L’impresa viene celebrata e contestata al tempo stesso. «Secondo vari testimoni, dagli spogliatoi tedeschi esce un forte odore di violetta (altri dicono papavero) – scriverà tempo dopo Gianni Brera – una settimana più tardi, quasi tutti i calciatori mostrano i sintomi dell’itterizia e dell’epatite virale».

Fritz Walter alza al cielo la Coppa. E per la prima volta dal 1945 l’inno tedesco viene suonato in pubblico. Quella finale passa alla storia come il Miracolo di Berna, un modo di dire che non rende però giustizia al talento di una squadra notevole come quella di Sepp Herberger. «Improvvisamente la Germania è tornata a essere qualcuno – ha detto Franz Beckenbauer – Per chiunque sia cresciuto nella miseria degli anni del dopoguerra, Berna è stata un’ispirazione straordinaria. L’intero Paese ha ritrovato la sua autostima». Tutto per merito di un tacchetto.

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