
Quando due minuti cambiano la storia di Manchester
Non basta dire che il campionato inglese è il più bello del mondo per spiegare quanto successo questo pomeriggio. Certo, sono sicuro che a Roberto Mancini sarà passato per la testa più di una volta di stramaledire il fottuto agonismo che gli inglesi mettono in campo sempre, specie se quella che deve essere la vittima sacrificale della corsa del City al titolo, ovvero il QPR, ha disperatamente bisogno di vincere per salvarsi. E non basta neanche godere per la consacrazione del cosiddetto “italian-style” tra le panchine d’Oltremanica, dove i due giovani Roberto stanno stupendo tutti con squadre motivate e ben organizzate, bagnando il naso ai ben più stagionati Sir Alex e Monsieur Arsène, e ancor più allo spocchioso portoghese, Villas Boas s’intende.
La vittoria del Manchester City di questo pomeriggio è stata l’ennesima manifestazione dell’imprevedibilità del pallone. Come? Già non era stato abbastanza imprevedibile un campionato dove a 7 giornate dal termine i Citizens si trovavano a -8 dai rivali, e in sole 4 partite si sono trovati davanti a loro? Già non era stato abbastanza imprevedibile una stagione dove la corsa a due tra Red Devils e Sky Blues da affiatata e imprevista, si era trasformata in un monologo dello United, che però è inciampato proprio sul rettilineo di arrivo?
Evidentemente no, avrà pensato il Dio del pallone. E così quella che in tanti si aspettavano essere una piacevole passerella trionfante per gli uomini di Mancini, si è trasformata invece in un estenuante tiro al bersaglio: 10 tiri in porta contro 2, 10 fuori dallo specchio contro 0, 80 percento di possesso palla. Eppure quella stramaledetta sfera non voleva entrare nella porta giusta. Sembrava un incubo di cui già si conosce il finale peggiore: ci si prova in ogni modo ad evitarlo, ma tutto pare vano.
E invece, proprio quando sembra che il tempo a disposizione stia finendo, il pallone inizia a girare nel senso giusto. Prima Dzeko trova il 2-2 con un colpo di testa su un corner, poi l’azione di Aguero: i secondi passano inesorabilmente, l’argentino incede lento, trovando un varco quasi casuale tra la difesa del QPR. Si ritrova solo davanti al portiere, chiude gli occhi e scarica il suo destro verso la porta: pesa quella palla, c’è sopra tutta la stagione del City, tutte le attese dei 50mila dell’Etihad Stadium, tutti quei 44 anni di astinenza degli Sky Blues dal titolo. Ma pare leggera una volta superata la linea di porta. È 3-2: non c’è un’immagine valida a spiegare tutta la gioia esplosa in quell’istante.
Mancini salta addosso a Brian Kidd, il suo vice. Faccia felice, dire quasi dantesca, ossia di chi è passato in poco tempo dall’Inferno al Paradiso. C’è tutta la fatica di un match così assurdo sotto i suoi occhi. C’è la veemenza di quei minuti eterni sul suo vestito stracciato dall’abbraccio della sua equipe. E c’è la meraviglia di chi ha visto il suo “italian style” prendere in mano il campionato più bello del mondo. Imprevedibilmente.
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