Qualcuno dica agli alieni dell’austerity che il loro culto del rigore non ha fondamento razionale. È ora di tornare a crescere

Di Francesco Amicone
03 Novembre 2014
Settecento economisti di tutti gli schieramenti si ribellano al "modello Grecia" e chiedono a Renzi di rivoluzionare le priorità dell'Europa. Basta con i sacrifici suicidi della Merkel, serve una Bretton Woods per l'euro

Qualche mese di esperienza a Palazzo Chigi, nella doppia veste di premier e ministro dell’Economia, bastò a Mario Monti per rendersi conto che il problema dell’Italia non erano né Silvio Berlusconi né il suo entourage. L’ex rettore della Bocconi già nel 2012 invitava l’Europa a correggere la strategia per contrastare la crisi economica e del debito pubblico. Chiedeva alla Commissione, al Consiglio europeo e alla Germania di superare l’austerità e «sostenere gli sforzi nazionali in favore della crescita e dell’occupazione». Nessuno rispose all’appello e, nonostante i tagli alla spesa pubblica, sulla scrivania del presidente del Consiglio si ammucchiavano dossier sempre più pessimistici sull’economia del paese. Non preoccupava lo spread fra i tassi tedeschi e italiani (motivo ufficiale della repentina ascesa del professore a Palazzo Chigi), men che meno la credibilità del governo, ma il prezzo da pagare nella lotta contro l’indebitamento pubblico.

Per non soccombere alla speculazione sui titoli italiani, allora come oggi, era necessario l’aiuto della Banca centrale europea. In cambio di quell’aiuto, Monti si impegnò con l’Europa ad accettare la dottrina del pareggio di bilancio, proseguendo, come i precedenti governi, nella riduzione del disavanzo fra le entrate e le uscite nelle casse dello Stato. L’obiettivo era (allora come oggi) portare il deficit sotto il 3 per cento. La missione riuscì. Alla fine del 2012, l’Italia tornò in recessione. Si persero 150 mila posti di lavoro e il debito salì di altri 80 miliardi di euro. La pressione fiscale apparente superò per la prima volta il 45 per cento. Secondo Confcommercio, nell’anno apocalittico dei maya, in Italia si registrò il livello di tassazione «più elevato della nostra storia economica recente». «Un record mondiale assoluto».

Sul finire del 2013, Moritz Kraemer, responsabile per i debiti sovrani dell’agenzia di rating Standard and Poor’s, ricorse a un’ovvietà per spiegare il motivo della disfatta economica del Belpaese: «Il vero problema dell’Italia non era e non è il deficit, bensì l’incapacità di crescere». Tramontata l’epoca dei tecnici e dei «compiti a casa», superato lo «scoglio» delle elezioni democratiche, l’economia italiana non ha ancora scoperto la «capacità» per risalire la china. L’esecutivo Letta, o «delle larghe intese», chiuse la sua esperienza senza riportare significativi risultati. Nemmeno il governo Renzi, che in questi giorni si barcamena tra il tentativo di non sforare gli obiettivi imposti dalla Commissione europea e quello di evitare il quarto anno di recessione consecutivo, è riuscito finora a invertire la tendenza. Anche perché l’«incapacità di crescere» è una caratteristica che accomuna l’Italia non solo ai paesi indebitati, ma a tutta l’Europa.

La stagnazione persistente della zona euro, paragonata al tasso di crescita degli Stati Uniti (nell’ultimo semestre al 3,2 per cento), è solo l’ultimo dei dati che, per una sempre più folta compagine di economisti, dimostra l’inadeguatezza dell’austerità e del rigorismo come premesse per una ripresa economica europea. Per questo, da fine ottobre, centinaia di accademici italiani e stranieri si sono uniti in una petizione per una “Bretton Woods” della zona euro. Si appellano al Consiglio dell’Unione Europea perché imponga il cambio di rotta fra le priorità politiche. Chiedono di salvare l’Europa dal «rigorismo» e da una politica monetaria che il nobel americano Paul Krugman ha definito «sadomonetarismo».

Atene senza scampo
«C’è bisogno di un momento di verità, per trovare una soluzione realistica alla crisi», spiega a Tempi l’economista Leonardo Becchetti, professore all’Università di Tor Vergata e membro del comitato promotore della “nuova Bretton Woods” (qui i sette punti proposti nella petizione, ndr). Il professor Becchetti, insieme ad altri settecento economisti di ogni orientamento, firmatari della petizione, non riesce a comprendere come, a sei anni dall’inizio della crisi economica, i vertici dell’Unione Europea possano essere ancora influenzati dalla dottrina dei “rigoristi”. «Dal resto del mondo, si guarda all’Unione con sempre maggiore incomprensione. Ci trattano da alieni, come se fossimo abitanti di un altro pianeta. Ci chiamano “gli austeriani”». È difficile spiegare ad americani e giapponesi perché gli europei pensino di placare il dio della crisi con “sacrifici” e “cure dimagranti”, invece di usare i mezzi della scienza economica. «L’austerità propagandata dalla leadership tedesca di Angela Merkel – prosegue Becchetti – si fonda su teorie irrazionali. Sulla paura atavica dell’inflazione, sull’idea che i debiti siano colpe morali».

Nell’attuale congiuntura economica, il rigore dei conti pubblici perde i connotati di politica economica e assume i contorni di un culto. Becchetti ritiene che aver messo “a stecchetto” per questione di principio i paesi membri indebitati abbia reso sempre più inestinguibili i debiti delle amministrazioni pubbliche. «Basta guardare la Grecia: è nell’Unione Europea, ma oggi sembra un paese del Sud del mondo», osserva. «È vero, dopo aver perso un quarto del suo Pil è tornata a crescere del 2 per cento nel 2013. Però il suo debito cresce al doppio della velocità». Secondo l’economista «ci consoliamo con previsioni anestetizzanti, ma senza una vera Banca centrale europea, senza un piano europeo per l’estinzione dei debiti dei paesi membri, l’Unione e l’euro non hanno futuro. Renzi dovrebbe porre al centro del semestre europeo a guida italiana la discussione di questo gravissimo problema».

Un’alternativa esiste
In una Unione Europea dove il limite del deficit al 3 per cento è una regola accettata e completamente disattesa da dieci paesi, è difficile pensare che le cosiddette “riforme strutturali” (quelle che secondo Bruxelles dovrebbero risolvere tutti i problemi) arrivino prima di un prevedibile dissesto economico. «Diciamo che il Fiscal compact è una sciocchezza, ma che lo rispettiamo. Perché? Qual è il senso?», si chiede Becchetti. Nemmeno il governo italiano sembra risoluto ad affrontare l’argomento. «Basta guardare alla legge di stabilità» osserva l’economista. «Ci accontentiamo di fare poco, con difficoltà, per non sforare regole obsolete. Quello che ci serve ora è qualcosa di più forte. Bisogna scrivere un nuovo manifesto per l’Europa».

Benché la nuova Commissione guidata dal lussemburghese Jean-Claude Juncker abbia parlato di flessibilità nell’applicazione delle regole del patto di stabilità e promesso 300 miliardi di investimenti per risollevare l’economia europea, non sono contemplate soluzioni nel lungo periodo per superare la crisi dei debiti. Eppure gli economisti della nuova Bretton Woods spiegano che una soluzione ci sarebbe. Il progetto Padre (Politically Acceptable Debt Restructuring). «L’idea dei francesi Pierre Pâris e Charles Wyplosz riesce a conciliare la sostenibilità del debito e la crescita», spiega Becchetti. In cosa consiste? «La Bce acquista la quota di debito eccedente il 60 per cento del Pil dei paesi membri e la converte in titoli a lungo termine, senza tasso di interesse, ripagati anno per anno con le risorse del signoraggio (6-7 miliardi all’anno, per l’Italia)». In questo modo, la Banca centrale europea userebbe il suo potenziale, evitando i problemi politici di altre soluzioni, come gli Eurobond. Sarebbe un vantaggio per tutti. Potrebbe iniziare con un esperimento. «Si può fare a pezzettini, per vedere l’effetto. Per esempio acquistando per ogni paese il 5 per cento della quota di debito eccedente il Pil».

Le alternative all’austerità ci sono. Ma la reticenza a fare il passo definitivo porterà, secondo le previsioni di Becchetti, alla distruzione dell’Europa. L’unione monetaria è stata il mezzo per tagliarci le vie di ritirata. «Ora siamo in mezzo al guado. Non è molto intelligente fermarsi in mezzo». Bruxelles, secondo Becchetti, non può più tergiversare: «Se non c’è la forza di cambiare, ognuno deve andare per la propria strada», conclude.

In balìa delle agenzie di rating
Anche per Stefano Zamagni, professore di Economia politica all’Università di Bologna, «le attuali politiche economiche a livello europeo non solo sono sbagliate dal punto di vista teorico, ma hanno effetti disastrosi». La scienza economica, insiste, «serve per migliorare la società, ma le politiche di austerità producono disastri che mi fanno sobbalzare sulla sedia». La ragione che ha spinto il professor Zamagni a firmare l’appello per una nuova Bretton Woods è anche l’auspicio che la politica europea riconquisti il primato sulla finanza. «Spetta alla politica decidere sul bene comune. E i politici dovrebbero rispondere alla civitas, ai cittadini, mica alle “sette sorelle”».

Se questo non accade, è perché negli ultimi trent’anni è stata sottovalutata l’inversione del rapporto fra economia e politica, spiega Zamagni. «La politica prima della globalizzazione era il regno dei fini, del bene comune, e l’economia un mezzo». Ora i rapporti, secondo l’economista, sono invertiti. E l’austerità ne è un esempio. «Non c’è nessuna ragione scientifica nel rigorismo. Se uno studente di economia cercasse di giustificare l’austerità come fanno i funzionari di Bruxelles, verrebbe bocciato». L’austerità, ribadisce Zamagni, «non promuove il bene sociale, bensì gli interessi, comprensibili ma non giustificabili, dei poteri finanziari». Non può essere un’agenzia di rating come Standard & Poor’s, a legittimare l’opposizione agli Eurobond (che rifletterebbero «il rating sul credito della Grecia») e a screditare l’attuale politica monetaria della Bce di Mario Draghi (che spingerebbe i governi al «compiacimento»). Per Zamagni «è un affronto fare scelte politiche basandosi sullo spread e sulle aspettative dei mercati». Ecco perché la politica, spiega, «dovrebbe riprendere in mano le redini e dettare le regole, come avvenne nel 1944 a Bretton Woods».

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2 commenti

  1. Cisco

    D’accordo sull’equilibrio tra debito e crescita, ma questo appunto non significa che occorra basare le proprie politiche sul deficit spending. Il deficit consente di comprare tempo, ma è del tutto evidente che il problema di fondo è la competitività delle imprese, da un lato, e l’imperialismo finanziario anglosassone, di cui proprio Bretton Woods fece da apripista. Insomma, droghiamo pure i mercati stampando moneta, purché ci rendiamo conto che a lungo andare nuoce gravemente alla salute.

  2. Tommasodaquino

    Basta parlare di debiti, siamo invasi di debito. Lo stato italiano ha 2000 mld di debito pubblico, ma di quanto altro debito c’è bisogno per capire che il sistema e modello keynesiano ha fallito? Riprendiamo piuttosto gli insegnamenti della sana Scuola di Salamanca che molti cattolici hanno liquidato troppo velocemente, e riscopriamo veri economisti come Carl Menger, Eugen von Böhm-Bawerk, Von Mises ed Hayek.

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