Mondiali 2022, nonostante le promesse in Qatar i lavoratori continuano a morire

Di Amedeo Lascaris
17 Dicembre 2021
Nel Paese del Golfo il governo annuncia riforme ma nonostante la sua abolizione la Kafala è ancora applicata. Intervista a Nicholas McGeehan, co-direttore dell’organizzazione per i diritti umani FairSquare
Un tifoso del Qatar in posa davanti al Thumama Stadium prima della semifinale della FIFA Arab Cup 2021 tra Qatar e Algeria, a Doha (foto Ansa)

L’edizione 2022 del Campionato mondiale di calcio che si terrà in Qatar a partire dal 21 novembre del prossimo anno è forse una delle più attese e controverse nella storia recente del torneo. Al pari di Expo 2020, attualmente in corso a Dubai, i Mondiali del 2022 saranno i primi disputati in un paese arabo del Medio Oriente e gli unici organizzati nella stagione invernale invece che nei tradizionali mesi di giugno e luglio, per evitare di esporre i giocatori alle roventi temperature estive.

Il Qatar ha speso 200 miliardi per le strutture

Si stima che dal 2010, anno della contestata assegnazione dei Mondiali del 2022, alla finale che si disputerà il 18 dicembre 2022, il Qatar avrà speso circa 200 miliardi di dollari per la realizzazione di strutture ricettive, sistema di trasporti e otto magnifici stadi (di cui sette costruiti interamente da zero) in cui verranno disputate le partite. Nella spesa finale non è però conteggiato il costo umano di oltre due milioni di lavoratori migranti che hanno consentito ad un Paese di soli 313.000 abitanti (contando solo i cittadini) di poter sostenere l’onere di organizzare uno degli eventi sportivi più importanti e costosi al mondo dopo le Olimpiadi.

Intervistato da Tempi, Nicholas McGeehan, co-direttore e fondatore di FairSquare, organizzazione per i diritti umani con sede nel Regno Unito, ricorda che «la situazione dei lavoratori migranti in Qatar e in altri paesi del Golfo resta particolarmente drammatica». In questi anni l’organizzazione guidata da McGeehan ha condotto innumerevoli ricerche sulla situazione dei lavoratori migranti in Qatar e nei paesi del Golfo. I migranti, ricorda McGeehan, «sono originari prevalentemente dall’Asia del sud e dell’Africa orientale», e il sistema in cui vengono reclutati consente ai datori di lavoro di esercitare «un fortissimo controllo che viola i diritti fondamentali e la possibilità di organizzarsi con il risultato che sono costretti a lavorare molte ore al giorno, esposti ad abusi e in ambienti malsani».

I morti nel 2020 sono almeno 50

Mentre sul lungomare della Corniche di Doha veniva installato lo scorso 21 novembre un grande orologio per iniziare il conto alla rovescia dei Mondiali, l’Organizzazione mondiale del lavoro (Ilo) rilasciava il rapporto «Uno è di troppo: la raccolta e l’analisi dei dati sugli infortuni sul lavoro in Qatar», realizzato in collaborazione con le autorità di Doha in base al quale solo nel 2020 50 lavoratori hanno perso la vita e circa 500 sono rimasti gravemente feriti, con 37.600 che hanno sofferto da lievi a moderate lesioni. Le cifre sono ovviamente parziali e coprono un tempo molto limitato (i dati affidabili risalgono di fatto solo fino al 2018) e soprattutto dipendono da un sistema in cui è particolarmente difficile, per stessa ammissione dell’Ilo, reperire dati affidabili.

Sui media circolano da anni elaborazioni e analisi basate su dati raccolti dalle ambasciate dei paesi di provenienza dei migranti. Di recente un’indagine del quotidiano britannico Guardian ha stimato che almeno 6.500 lavoratori provenienti da Pakistan, India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka sarebbero deceduti nell’arco dei dieci anni dall’assegnazione dei Campionati del mondo nel 2010, 1.641 dei quali di origine nepalese.

Il potere degli sponsor sui lavoratori

Nel tentativo di allontanare le critiche da un evento che rappresenta molto di più che un appuntamento sportivo, il Qatar ha avviato nel 2017 con l’Ilo una collaborazione volta a cambiare le sue leggi sul lavoro. Sotto accusa da parte della comunità internazionale è stato in questi anni il famigerato sistema della Kafala, un quadro giuridico che definisce il rapporto tra i lavoratori migranti e i loro datori di lavoro basato sulla sponsorizzazione e utilizzato per fornire manodopera a basso costo e abbondante soprattutto in paesi con popolazioni locali limitate e ad alto reddito: Bahrdin, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, ma anche Giordania e Libano.

Con questo sistema, lo Stato concede a individui o aziende locali permessi di sponsorizzazione per impiegare lavoratori stranieri. Lo sponsor copre le spese di viaggio e fornisce alloggio, molto speso dormitori realizzati nei pressi dei cantieri, o, nel caso dei lavoratori domestici, nella casa dello sponsor. Poiché il sistema rientra nella giurisdizione dei ministeri dell’Interno, piuttosto che dei ministeri del Lavoro, i migranti non hanno alcuna protezione ai sensi del diritto del Lavoro del paese ospitante, condizione che li rende vulnerabili allo sfruttamento e nega loro diritti come la possibilità di avviare un processo per controversie di lavoro o di aderire a un sindacato.

Inoltre, i loro visti di lavoro e di residenza sono collegati e solo gli sponsor possono rinnovarli o revocarli, potendo così ricattare e sfruttare in condizione di quasi schiavitù i migranti al loro servizio. Come sottolinea McGehaan questi lavoratori rischiano continuamente la loro vita e la loro salute, specie in alcuni settori come quello dell’edilizia, dove le condizioni di lavoro sono particolarmente dure con caldo estremo e alti livelli di umidità per gran parte dell’anno. «I lavoratori domestici, che sono in gran parte donne, sono di fatto segregate all’interno delle abitazioni dei loro datori di lavoro, sono molto vulnerabili e potenziali vittime di violenze psicologiche e fisiche», sottolinea McGehaan, osservando che a ciò si aggiunge anche una sistematica discriminazione razziale che disumanizza i lavoratori.

Il sistema della Kafala

Introdotto a partire dall’inizio del XX secolo per regolamentare il trattamento dei lavoratori stranieri nell’industria delle perle e in altri traffici commerciali, il sistema della Kafala è entrato ufficialmente nelle legislazioni dei paesi del Golfo con l’avvio dei grandi piani infrastrutturali legati all’espansione dell’industria petrolifera che richiedevano ingenti quantità di lavoratori non specializzati da impiegare in progetti temporanei. In Qatar il sistema è entrato a far parte della legislazione ufficialmente nel 1963 per poi confluire in una nuova legge risalente al 2009.

L’assegnazione nel dicembre del 2010 dei Mondiali di Calcio 2022 ha aumentato la richiesta di manodopera soprattutto da parte delle aziende impegnate nella realizzazione delle grandi opere infrastrutturali con milioni di persone di fatto vittime del sistema della Kafala. Dal 2010 al 2017 la popolazione dell’emirato è aumentata di quasi il 40 per cento, passando da 1,63 milioni a 2,67 milioni, per oltre il 90 per cento. A seguito di quasi dieci anni di pressioni da parte della comunità internazionale, il Qatar ha introdotto tra il gennaio e il settembre del 2020 una serie di riforme per smantellare il sistema della Kafala, tra cui la possibilità di cambiare impiego anche senza il consenso dei datori di lavoro e un aumento del salario minimo a 1000 rial (275 dollari).

La nuova legislazione c’è ma non è applicata

Tuttavia, alle riforme sulla carta non è seguito un controllo reale della loro applicazione, anche alla luce di un salario minimo che non consente ai lavoratori più poveri di sopravvivere all’alto costo della vita dell’emirato, rendendoli di fatto in balia di offerte che prevedono anche vitto e alloggio e quindi un ritorno informale al vecchio sistema. Nicholas McGeehan ammette che il Qatar ha cambiato le sue leggi, abolendo il sistema della Kafala, alla base degli abusi sui lavoratori migranti: «La nuova legge consente ai lavoratori di cambiare il proprio impiego e sul piano legale è di per sé positivo. Tuttavia, quello della Kafala è un sistema profondamente radicato non solo sul piano legislativo ma nella pratica. Cambiare il sistema della Kafala con l’obiettivo di abolirla richiede una forte volontà politica per trasformare le modalità con cui gli stranieri sono controllati e gestiti. Il Qatar non ha ancora dato una forma legale a questa volontà politica. I lavoratori non possono cambiare lavoro. Tutte gli studi sulla situazione in Qatar hanno dimostrato che tutti i tentativi di cambiare la legge sono stati respinti».

Secondo McGeehan, di fatto, il governo consente ai datori di lavoro di eludere o interpretare la legge, e commentando le cifre fornite dall’Ilo, è difficile vedere la corrispondenza tra i dati riportati e quello che effettivamente si riscontra sul campo.  I paesi di provenienza dei lavoratori migranti impiegati nei vari settori dell’economia qatariota sono in prevalenza India, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Kenya e Filippine. A causa della temporaneità degli impieghi i dati sono spesso scarsi o approssimativi. Gli indiani rappresentano il primo paese di origine dei lavoratori migranti e nel 2018 erano circa 690.000, in base a dati del governo di Nuova Delhi.

Ai paesi d’origine dei lavoratori non interessa

I lavoratori nepalesi sono invece quelli maggiormente impiegati nel settore dell’edilizia e secondo le stime sarebbero circa 400.000, una cifra enorme se paragonata alla popolazione dello Stato himalayano, circa 30 milioni di abitanti. Come osserva McGeehan, è complesso avere azioni da parte dei paesi di origine a favore dei loro cittadini che lavorano all’estero. Infatti, «le nazioni di origine dei migranti sono spesso in competizione tra loro, hanno alti tassi di povertà e disoccupazione giovanile e la loro economia è sostenuta dalle rimesse estere». L’India è il primo paese al mondo per rimesse dei propri cittadini all’estero (773 miliardi di dollari nel 2020), ma i flussi provenienti da Filippine (26 miliardi di dollari), Nepal (7 miliardi di dollari nel 2020) e Bangladesh (21 miliardi di dollari) sono tra i più alti al mondo soprattutto se paragonati alla popolazione.

Carcere per chi denuncia il sistema di sfruttamento

Con l’avvicinarsi del fischio d’inizio dei Mondiali 2022, nell’emirato aumentano anche le ritorsioni per coloro che tentano di far luce sulle condizioni dei lavoratori migranti. Un caso che ha avuto molta eco è quello di Abdullah Ibhais, ex media manager del comitato organizzatore della Coppa del mondo condannato lo scorso 15 dicembre a tre anni di carcere con l’accusa di appropriazione indebita di fondi statali. In un messaggio vocale dal carcere dopo la sentenza, Ibhais, che sta attuando uno sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione, si è dichiarato innocente sottolineando che la sua condanna è direttamente correlata ad un’indagine da lui condotta nell’agosto del 2019 sulle condizioni dei lavoratori migranti.

L’uomo, di nazionalità giordana, afferma di essere stato costretto a firmare una confessione in cui si dichiara colpevole e che avrebbe in seguito ritrattato, ma che la corte qatariota si sarebbe rifiutata di invalidare. Ibhais è stato arrestato dalla polizia il 15 novembre, poco prima di essere intervistato da due giornalisti dell’emittente pubblica norvegese NRK, i quali sono stati in seguito trattenuti dalle forze di sicurezza del Qatar per più di 30 ore con l’accusa di aver violato proprietà private e aver filmato senza permesso.

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