
Putin, ti piace vincere facile? È scontato chi sarà il prossimo presidente in Russia
Anticipiamo l’articolo “Compagno Vladimir” che apparirà sul numero 08/2012 di Tempi da domani in edicola. Si tratta di un reportage scritto da Mosca, dal nostro inviato Rodolfo Casadei. Nei prossimi giorni tempi.it continuerà a seguire la campagna elettorale russa con interviste, approfondimenti e analisi.
La differenza si nota subito. Zyuganov, Prokhorov, Zhirinovsky occhieggiano dai pannelli rettangolari ai lati dei viali e delle arterie di grande scorrimento, ben sopra il pantano di neve, fango e morchia che il gelo cristallizza su veicoli e pedoni. Lui no. Bastano i messaggi, sullo sfondo di un panneggio blu con sbuffi di bianco e di rosso agli estremi: i colori della bandiera russa. “Che il grande paese abbia un futuro dignitoso”; “Insieme verso la grande Russia”; “A un grande paese, un leader forte”. In alto a sinistra, in caratteri molto più piccoli, “V. Putin 2012”. L’insistito “grande” non è la traduzione di “bolscioi”, l’aggettivo che indica grandezza fisica (come nel nome del Teatro Bolscioi), ma di “veliki”: grande nel senso di importante, come nell’appellativo di Pietro il Grande, lo zar che trasportò la capitale da Mosca a San Pietroburgo.
Dopo le manifestazioni di dicembre, gennaio e febbraio che hanno portato sul bulevard Sakharov e in piazza Bolotnaya più di centomila persone a protestare contro presunti brogli elettorali nel voto per la Duma del 4 dicembre e contro l’ineluttabile ritorno di Putin alla presidenza della Federazione russa in forza del prevedibilissimo esito del voto del prossimo 4 marzo, all’ex ufficiale del Kgb piacerebbe sicuramente giocare uno scherzetto ai riottosi moscoviti e portare di nuovo, dopo quasi un secolo, la capitale in quella che è la sua città natale. Ma non ce ne sarà bisogno. Perché il movimento di protesta che ha sfidato i meno 20 gradi di febbraio è festoso come i clown, gli orsi ammaestrati e le abbuffate di bliny (le crêpes russe) della Maslenitsa, il carnevale ortodosso che sta per arrivare, e miracoloso come un bucaneve; ma è anche acefalo come le cernie che i mercanti caucasici decapitano prima di consegnare alle babushke e male assortito come un’insalata russa con gli ingredienti sbagliati e una punta di rancido.
«Questa è una protesta che non ha al centro la protesta, ma il senso della dignità personale, qualcosa senza precedenti nella nostra storia. I brogli elettorali sono stati solo un pretesto, bastava vedere i cartelli, come quello che diceva: “Non abbiamo eletto questi stronzi, ne abbiamo eletti altri”. La gente intervistata dai giornalisti rispondeva: “Sono qui perché la mia dignità è stata ferita, esigiamo rispetto”. È il modo di pensare, sconosciuto in epoca sovietica, di persone abituate ad agire di propria iniziativa, a non chiedere che lo Stato faccia tutto. Sono persone che fanno volontariato, che si occupano dei problemi del quartiere, che vogliono aiutare il prossimo. Ai tempi del comunismo la gente semplice protestava contro il sistema attraverso il vandalismo, oggi è il contrario: si fa del bene, ci si comporta educatamente, si compiono piccoli atti civici, per distinguersi dai potenti, rozzi e maleducati. A dire la verità, c’è una profonda diversità fra la massa delle persone che sono scese in strada e gli speaker che hanno preso la parola in piazza: questi ultimi sono gente di un’altra epoca, non interpretano il sentimento della nuova protesta, non ne sono i veri leader. La verità è che se si votasse senza brogli, vincerebbe Putin al secondo turno». Chi parla così è Olga Sedakova, poetessa pluripremiata e pluritradotta, negli anni Settanta e Ottanta voce del Samizdat e oggi anima gentile della protesta della Bolotnaya nella sua componente intellettuale. Se una come lei si sente in dovere di sigillare con un bemolle il suo genuino entusiasmo, è segno che le faccende circa la nuova opposizione russa non sono come ce le ha raccontate l’entusiasta stampa liberal europea e nordamericana.
«Noi coi fascisti e coi comunisti non ci mescoliamo. Non accetto il discorso di chi dice: adesso lottiamo uniti per far cadere Putin, poi faremo i conti nelle urne, ognuno col suo simbolo e con le sue idee. Io lo so già che Russia uscirebbe dalle urne, dopo questi dodici anni di lavaggio del cervello: i comunisti di Zyuganov porterebbero a casa quasi il 40 per cento, gli ultranazionalisti il 20, noi democratici il 10 e gli amici di Putin il rimanente 30».
Konstantin Borovoy è stato un deputato della Duma negli anni Novanta e prima di allora un imprenditore di successo, iniziatore delle prime esperienze borsistiche nel paese, ma oggi è soltanto il leader di una formazione politica non ammessa alle elezioni: il Partito della libertà economica. Borovoy, che politicamente si considera allineato a Silvio Berlusconi e al Pdl italiano dopo essere stato un esponente del Partito radicale transnazionale («non potevo condividere la battaglia per la legalizzazione delle droghe»), ha organizzato un meeting di mille persone in bulevard Sakharov mentre il grosso dei manifestanti si dirigeva verso la Bolotnaya. «Meglio pochi che tanti ma male accompagnati: alla manifestazione c’era gente col cartello “fuori gli ebrei dal governo della Russia”; c’era il Fronte della Sinistra di Sergej Udaltsov, un vero stalinista, uno che auspica una nuova Rivoluzione d’Ottobre e l’eliminazione fisica dei borghesi nel corso di una nuova guerra civile. E Alexei Navalny non è l’eroe che dipinge la stampa occidentale: è stato espulso dal partito liberale Yabloko un paio di anni fa per le sue prese di posizione ultranazionaliste, e di fatti a novembre ha guidato l’ultima Marcia Russa, l’annuale sfilata dei nazionalisti radicali, dove gli hanno concesso l’onore di lanciare il famigerato grido di battaglia: “Gloria alla Russia!”».
Borovoy non è gentile con Navalny e con gli altri blogger che bucano la cortina della censura di fatto che prevale con poche eccezioni nel panorama dei media russi tradizionali. Li considera marionette nelle mani del sistema: «Le inchieste sulla corruzione di RosPil e degli altri siti di blogger non sono tanto il risultato di giornalismo investigativo o delle denunce dei cittadini, come si vuole far credere, quanto delle imbeccate dei gruppi d’interesse del sistema che restano tagliati fuori nelle lotte per accaparrarsi vantaggi nelle gare di appalti pubblici. Il suo ultimo scoop, quello sugli sprechi dei fondi federali alla Cecenia, è nato così. I nostri giornalisti di opposizione non sono in grado di offrire un quadro completo della corruzione, perché dispongono solo della capacità visiva che le lotte di potere interne al sistema permettono loro di avere».
A questi discorsi non ci sta Vladimir Ryzkhov, che fu vicepresidente della Duma negli anni Novanta e oggi insieme al più noto Boris Nemtsov è co-presidente del Partito della libertà del popolo, non ammesso alle elezioni. Lui è stato uno degli speaker di piazza Bolotnaya: «La presenza di estremisti di destra e di sinistra alla manifestazione non è stata importante come si vuol far credere: i sondaggi di Levada (istituto demoscopico russo – ndr) dicono che gli ultranazionalisti non erano più del 5 per cento, e i simpatizzanti della sinistra radicale poco di più. I liberali erano quasi i due terzi, più un 30 per cento di sinistra democratica. Non siamo una Rivoluzione arancione, siamo una coalizione giallo-rossa». Fino a tempi recentissimi Ryzkhov ha insistito sull’impreparazione della società russa per la democrazia. Sottolineava la passività civica ereditata dal comunismo e consolidata dal consumismo; evidenziava che l’85 per cento di tutti i cittadini russi non partecipa a nessun tipo di associazione: politica, sociale o religiosa. Ora dichiara il contrario: «Non è la società a essere impreparata alla democrazia, è il regime. Il paese oggi è spaccato in due: da una parte la classe media, che lavora in proprio, si informa e non è ostile all’Occidente; dall’altra la Russia agricola e delle piccole città, che dipende dall’assistenza statale ed è succube della propaganda antiamericana del sistema. I primi vogliono un sistema aperto e competitivo, i secondi sentono il bisogno di un regime paternalistico. La società civile è ancora debole, ma sta crescendo impetuosamente». Forse sull’ottimismo di Ryzkhov influisce il recente incontro col presidente uscente Medvedev, che ha promesso di facilitare la registrazione dei partiti attualmente fuori legge.
Della diversa agenda politica delle due Russie si occupa anche Boris Kagarlitsky, direttore dell’Istituto sulla globalizzazione e i movimenti sociali, che lui stesso definisce «il più importante think tank di sinistra in Russia». Kagarlitsky fa parte di quella sinistra che in Italia è rappresentata da Sel e dai Verdi. Negli anni Ottanta ha conosciuto la prigione come dissidente: «Un socialista imprigionato nella patria del socialismo!», sospira. «Sono d’accordo sul dualismo fra metropoli e province, ma bisogna spiegare che anche le province sono scontente del sistema Putin, però per ragioni opposte a quelle di Mosca: quello della Bolotnaya è un movimento di classe media, che chiede riforme liberali, invece il problema della provincia è la crisi del welfare, la privatizzazione strisciante dei servizi. Si tratta di dipendenti pubblici e di grandi imprese solo apparentemente private che domandano un maggiore interventismo statale. Non possono manifestare per non perdere il posto di lavoro, ma nelle urne hanno punito Russia Unita e hanno reso necessari massicci brogli per aggiustare il risultato finale. In comune, i due movimenti hanno la lotta contro la corruzione e contro la rielezione di Putin, ma politicamente sono distanti».
Nonostante queste divisioni Putin non ha da rallegrarsi, secondo Kagarlitsky: «Mancano le risorse per continuare quella politica del compromesso di cui Vladimir è stato maestro: il prezzo del barile di petrolio e del gas è alto solo apparentemente, i dollari valgono sempre meno e non è possibile accontentare tutti. Aspettiamoci proteste e una dura repressione all’indomani del voto. Il sistema potrebbe anche decidere di sostituire Putin con volti meno compromessi: sarebbe il prosieguo del putinismo senza di lui, sul modello di quello che è avvenuto in Egitto nell’ultimo anno. D’altra parte i leader di piazza Bolotnaya non vogliono vincere: vogliono solo accordarsi col potere».
Non è affatto convinto che il neo-presidente si troverà con le spalle al muro il giorno dopo la sua terza elezione Pavel Danilin, caratteristico esemplare di blogger pro-Putin redattore del sito www.kreml.org. Secondo lui apparecchierà qualche nuovo posto a tavola e le cose si aggiusteranno: «Non ci sarà né una Rivoluzione arancione, né una Rivoluzione verde come nei paesi arabi, perché gli scontenti russi non vogliono una cosa del genere: sono interessati alla stabilità. È una protesta di intellettuali che il governo attuale soddisferà: verranno legalizzati nuovi partiti, di nuovo si voterà per i governatori, cambieranno i regolamenti per le elezioni presidenziali e per quelle della Duma. E smettete di dire che quella di Mosca è la protesta della classe media: c’è una classe media che sta con Putin perché deve a lui la crescita del suo benessere, e ora teme di perderlo. Al Parco della Vittoria non c’erano solo dipendenti pubblici».
Alla controprotesta del 4 febbraio hanno partecipato, fra tante sigle, l’Unione dei Cittadini ortodossi e l’Associazione degli Esperti ortodossi. Le parole del presidente di quest’ultima, Kirill Frolov, lasciano intendere con quale spirito: «Ci siamo riuniti per dire di no a questa rivoluzione, che vuole deporre un sovrano ortodosso come fece quella del 1917. Non vogliamo essere governati da gente che si inginocchia davanti all’ambasciatore degli Stati Uniti e che favorirebbe il disegno americano: la disgregazione della Russia. L’8 febbraio Putin ha incontrato il patriarca Kirill e tutti i leader religiosi russi: ha confermato l’insegnamento del cristianesimo nelle scuole e ha auspicato una maggiore presenza della Chiesa alla televisione. Se la rivoluzione vincesse, questi accordi sarebbero compromessi. Per questo chiediamo ai cattolici italiani di appoggiarci come noi ortodossi vi abbiamo appoggiato davanti alla Corte europea nella difesa dei crocefissi nelle scuole. Vi chiediamo di espellere dall’Italia il rivoluzionario Vladislav Belkosky, che ha preso casa a Venezia (esperto di comunicazione un tempo al servizio di Putin oggi all’opposizione – ndr)».
Non tutti gli ortodossi ostentano posizioni così decise. «Siamo di fronte a una protesta di natura morale di fronte al mancato sviluppo del paese, la società si è svegliata dopo un lungo sonno, ma non ci sono alternative al governo attuale: mancano i leader, i programmi e l’organizzazione per un’alternativa», spiega Sergej Chapnin, caporedattore della rivista ufficiale del Patriarcato di Mosca. «Per questo il patriarca Kirill, intervistato dalla televisione pubblica, ha detto: “L’obiettivo è che le proteste espresse in modo appropriato portino a una correzione della linea politica, questa è la cosa più importante. Se le autorità dovessero restare immobili davanti a queste proteste, sarebbe un gran brutto segno. Il segno che non sono capaci di adattarsi ai tempi che cambiano”».
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