
Putin, Biden e il gioco pericoloso delle opposte narrative sulla crisi ucraina

Certamente c’è stato qualcuno che, nella notte tra il 15 e il 16 febbraio, ha tenuto accesa la televisione in attesa della breaking news “È cominciata l’invasione”. Costui è stato deluso dal mancato sferragliare in diretta dei carri russi.
La vicenda Ucraina, non ancora conclusa, si inserisce nel contesto della guerra ibrida che organizza questa terza guerra mondiale in corso, quella scritta a capitoli secondo papa Francesco. In effetti, si tratta solo di un capitolo in un quadro più ampio: da anni è cominciato il confronto per una nuova forma di egemonia politica, molto tradizionale, i cui competitor sono le vecchie potenze secolari (Usa, Russia e Cina). Altro non è dato: chi avrebbe voluto provare a infilarsi (l’Europa) è stato accuratamente bloccato con cappi ricattatori sia politici sia economici. Al di là delle belle parole per un nuovo ordine mondiale, l’accordo della tripletta era quello, prima, di castrare gli emergenti, per poi vedersela tra loro formalmente per una “spartizione” o più concretamente per misurarsi su chi dovesse essere il primo.
Comunicazione come strumento di guerra
La faccenda Ucraina si colloca in questo quadro e conferma – mi limito a considerare tale aspetto – l’importanza sempre maggiore delle politiche comunicative come strumenti di guerra.
Tutta la storia dell’invasione e i suoi presupposti si basano su un articolato sistema di narrative. Sembra quasi che gli americani, dopo aver denunciato la guerra di fake news scatenata dai russi durante i confronti elettorali statunitensi, abbiano voluto dimostrare di avere imparato a utilizzare le medesime armi contro l’avversario russo. Una sorta di “ve lo facciamo vedere noi chi è più bravo a raccontar balle”.
L’azione è spumeggiante: l’intelligence Usa si trasforma nella “Precrimine” e i sui analisti in “Precog” capaci di prevedere giorno e ora dell’attacco. In questa narrativa c’è tutta l’arte cinematografica Usa: questa volta la politica non si preoccupa di mantenere riservate alcune ipotesi di intelligence, ma le usa volutamente per dinamizzare l’attenzione del pubblico con un trailer che promette tuoni e lampi all’audience. È un mix di lezioni apprese dal successo del primo attacco in diretta tv alla Baghdad di Saddam Hussein e dalla suspance creata dal Osama Bin Laden quando annunciava i suoi futuri discorsi: qualcuno nell’amministrazione americana ha rotto il ghiaccio e probabilmente, à la guerre comme à la guerre, ha intrapreso la medesima strategia comunicativa.
Non so quanto l’intelligence ne sia stata felice, ma il suo compito non è di provare emozioni bensì solo di servire, anche immolando la sua serietà interpretativa e il suo buon nome alla causa politica del paese: macerie di intelligence.
A ciascuno il suo racconto
Comincia così la bagarre dei racconti, ciascuno interpretato per massimizzare il physique du rôle del protagonista.
La Russia si impegna nella narrativa dell’esercitazione, fatta di immagini muscolari sul terreno, tutte icone della parata in piazza e nella taiga, sempre con cipiglio serio e duro, anche da parte dell’ultima comparsa. Le esercitazioni in Russia sono cosa seria, si fanno come si facesse la guerra sul serio, e si fanno in ogni area del mio paese, magari in quelle dove lo scenario è più realistico. Questa è la storia.
L’America, che si confronta con un’audience pagante europea, non può che rilanciare una narrativa alla Minority Report, dove l’azione resta sospesa nella possibilità che qualcosa accada sul serio, ma concludendosi in un finale con dissolvenza che non mostra ora, ma non esclude per dopo.
Guardiamole bene queste due storie perché sono entrambe coerenti, non validabili se non a posteriori, ben congeniate rispetto alle possibilità creative della produzione e focalizzate su una specifica audience. Soprattutto sono entrambe sia vere sia legittime, seppure nell’ambito di quella verità contestualizzata alla situazione (verità con la “v” minuscola) e di quella legittimità che si basa su norme fondate su diversi sistemi di valore.
La radicalizzazione dei “già convinti”
E poi entrambe ottengono un risultato: i fan dell’uno o dell’altro protagonista, dopo la rappresentazione, saranno ancora più convinti di prima. La strategia della propaganda, soprattutto quella che non si confronta con il fatto che viene minacciato, ha come risultato la forte radicalizzazione dei “già convinti” che costituiscono l’inossidabile zoccolo duro: da oggi sempre più filorussi o filoamericani, sicuri che la bella storia in cui si crede sia stata la ragione della “sconfitta” dell’altro.
Stupidate: entrambe le storie erano reciprocamente necessarie, raccontate in questo modo per poter arrivare a una conclusione doppiamente soddisfacente.
Infatti, per ora, se si congela la situazione tutto sommato si mantiene una certa stabilità che agli europei permette di riscaldarsi col gas, e alle due “potenze” di reclamarsi campioni: la Russia, della integrità territoriale dello Stato; l’America, del valore ideale della sovranità dello Stato. Insomma, ciascuno ritrova confermato, nel proprio campione non sconfitto, quello che già prima lo qualificava per la cosiddetta target audience.
Ma il gioco è assai pericoloso: le narrative sono parte di una strategia comunicativa e la comunicazione ha sempre un qualche effetto, anche se non abbiamo teorie adeguate per comprendere quali saranno questi effetti. Questa strategia la rivedremo in opera in altri scenari del conflitto ibrido, portatrice di deflagrazioni a catena e imponderabili.
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Marco Lombardi, autore di questo articolo, è direttore del dipartimento di Sociologia e del centro di ricerca Itstime dell’Università cattolica del Sacro Cuore
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