Quanto è ipocrita il gaywashing nel calcio

Di Piero Vietti
23 Maggio 2022
La psicopolizia della Federcalcio francese vuole le scuse del calciatore musulmano che non è sceso in campo contro l'omofobia, il proprietario del PSG fa campagne per i diritti ma in Qatar fa arrestare i gay
PSG gay pride Gueye
14 maggio. I giocatori del Paris Saint-Germain festeggiano dopo un gol al Montpellier. Sulle loro magliette, i numeri arcobaleno in occasione della giornata contro l'omofobia (foto Ansa)

Nel turno di campionato di sabato 14 maggio i calciatori del Paris Saint-Germain sono scesi in campo con magliette e numeri colorati in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Ma, come abbiamo raccontato, un giocatore non è stato nemmeno convocato. Si tratta di Idrissa Gueye, che ha saltato la partita contro il Montpellier per “motivi personali”. In realtà, come noto, Gueye si è rifiutato di giocare per evitare di dover indossare i colori Lgbt.

Applausi al calciatore gay, fischi a quello religioso

Il centrocampista senegalese è un musulmano devoto che condivide regolarmente messaggi religiosi sui social media, ma nel dibattito in Francia il tema della sua fede ha creato inizialmente qualche imbarazzo, generando un cortocircuito politicamente corretto in cui però alla fine la Federcalcio francese si è trasformata in psicopolizia e ha chiesto ufficialmente al giocatore del PSG delle scuse pubbliche per il suo rifiuto. Gueye non si è scusato, e ha incassato la solidarietà del presidente senegalese Macky Sall. – «Io sostengo Idrissa Gana Gueye», ha detto. «Le sue convinzioni religiose devono essere rispettate» – e quella di Cheikhou Kouyate del Crystal Palace e Ismaila Sarr del Watford. Ma di fronte all’omofobia non c’è più religione, così Kouyate e Sarr sono stati criticati dalle stesse società in cui militano.

Gueye è senegalese e musulmano, ha idee “tradizionali”, non sembra volere celebrare in prima persona l’omosessualità. Non ha offeso nessuno, non ha fatto dichiarazioni contro i diritti dei gay o dei trans, si è limitato a non scendere in campo con i colori arcobaleno. Eppure, fa notare Brendan O’Neill sullo Spectator, per essere rimasto fedele alle proprie convinzioni morali, viene trattato come un eretico. Negli stessi giorno dello “scandalo” Gueye, in Inghilterra c’è stato il caso del diciassettenne calciatore del Blackpool Jack Daniels che ha fatto coming out dichiarandosi apertamente omosessuale. Daniels è stato applaudito ed elogiato da tutti per avere avuto il coraggio di dire chi è.

Tolleranza e gaywashing

Quindi, provoca ancora O’Neill, «nel calcio professionistico oggi puoi essere un omosessuale orgoglioso, ma non puoi nutrire nemmeno un briciolo di dubbio morale sull’omosessualità? Sei libero di essere te stesso in termini di sessualità, ma non sei libero di essere te stesso in termini di credo religioso Non sono sicuro che possiamo davvero chiamare il calcio “tollerante” se celebra persone come Daniels per essere apertamente gay – il che è fantastico – ma poi contesta e infama Gueye per le sue convinzioni personali sul sesso e la moralità». La vicenda del calciatore senegalese segnala un ulteriore cambio di passo: a quando un test di moralità per decidere chi è più o meno degno di giocare?

La bandiera arcobaleno è lo strumento perfetto per fare gaywashing: le aziende la sventolano e subito sono arruolate idealmente tra i sostenitori dei diritti LGBT. Il Pride ormai non riguarda più la celebrazione della libertà dei gay, nota ancora l’editorialista dello Spectator, «ma è piuttosto diventato un’orgia globalizzata per segnalare la propria virtù. Adornare se stessi o la propria attività con i colori dell’arcobaleno è un modo per dire “io vado bene. Sono a posto. Ho le opinioni corrette”. E, per estensione, chiunque rifiuti l’arcobaleno è considerato sospetto, peccatore, qualcuno che potrebbe aver bisogno di un po’ di rieducazione».

I proprietari del PSG li arrestano, i gay

Che il giochino sia questo se ne sono accorti proprio tutti, infatti: i giocatori del Newcastle sono scesi in campo con i lacci delle scarpe arcobaleno per sostenere la lotta contro l’omofobia, e a qualcuno è venuto naturale chiedersi se un’iniziativa del genere sia utile ad esempio agli omosessuali sauditi che in patria rischiano la pena di morte a causa delle loro preferenze sessuali.

Già, perché si dà il caso che il proprietario del Newcastle che difende orgogliosamente i gay, le lesbiche e i trans, sia il fondo per gli investimenti pubblici dell’Arabia Saudita.E che dire del proprietario del Paris Saint-Germain, la squadra del reprobo Gueye? Si tratta di Tamim bin Hamad Al Thani, l’emiro del Qatar, paese in cui l’omosessualità è illegale (è già stato consigliato, in vista dei Mondiali che si terranno nel paese, di non fare effusioni tra persone dello stesso sesso in pubblico allo stadio) ed è prevista la pena di morte per i musulmani sorpresi ad avere relazioni gay.

L’ipocrisia della lotta all’omofobia

Pretendere da Gueye scuse perché in nome della sua fede religiosa non partecipa alla giornata contro l’omofobia (pensiamo a cosa succederebbe se fosse un cristiano a farlo…) e fingere di non vedere quello che succede nei paesi governati da chi possiede squadre di calcio che si dicono «orgogliose di indossare la maglia arcobaleno» è l’ipocrisia suprema di un mondo che usa i diritti delle minoranze come pecetta buona a pulirsi la coscienza e fare quello che nel marketing si chiama posizionamento, ma che in fondo è pronto ad adattarsi a tutto in nome del business e della sudditanza culturale.

«Le più grandi stelle del calcio mondiale sono scese in campo sabato e hanno espresso l’impegno del club nella lotta contro l’omofobia e tutte le forme di discriminazione», ha scritto in un comunicato il Paris Saint-Germain. Se è davvero la lotta contro l’omofobia che interessa, forse si dovrebbe iniziare a difendere chi viene arrestato e giustiziato perché gay, invece che crocifiggere sui media chi legittimamente non vuole indossare l’arcobaleno.

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