Nell’epoca delle emergenze infinite, ecco il “reato di negazionismo climatico”

Di Andrea Venanzoni
26 Luglio 2023
Viviamo un'epoca di allarmi concatenati tra loro in cui si esiste solo in un processo continuo di mobilitazione totale che non ammette dubbi o sfumature. Ma così sono in pericolo libertà e senso del ridicolo
Climate clock negazionismo climatico
Secondo il "Climate clock" di New York al mondo restano meno di sei anni per riuscire a contenere entro un grado e mezzo l'aumento della temperatura globale prima che gli effetti dei cambiamenti climatici siano irreversibili (foto Ansa)

Se in guerra, come usa dirsi con frase attribuita ad Eschilo, la prima vittima è la verità, in tempi di emergenza perenne le prime vere vittime sembrerebbero essere la libertà e il senso del ridicolo.

Solo così potrebbero commentarsi le proposte, in genere a uso stampa, di presunti anti-populisti che non trovano di meglio che sguazzare nel più puro populismo penale, lanciandosi nella richiesta di criminalizzare, fortissimamente criminalizzare, il “negazionismo”: negazionismo pandemico, climatico, poi per via ne arriverà qualcun altro perché tanto ormai lo standard è stato escogitato e torna sempre utile.

Silenziare il “negazionismo” ad ogni costo

La vita, in questa grama epoca di emergenze concatenate tra di loro, stordenti e asfissianti nel loro incedere accelerato, è sempre più caotica e svuotata di senso: si esiste solo in un processo continuo di mobilitazione totale contro la causa scatenante dell’emergenza di turno.

Opinione pubblica polarizzata che non ammette dubbi o sfumature intermedie, semantica da guerra totale con la richiesta di trattare gli scettici come traditori, il merito delle questioni nemmeno più affrontato o discusso, alla faccia del metodo scientifico: i “negazionisti” vanno silenziati, deve essere loro impedito di esprimersi, come occhieggia nel dibattito pubblico, con crescente frequenza va detto, e sulle prime pagine dei giornali.

E poco importa se il termine “negazionista” significhi poco o nulla, e anzi rappresenti una volgarizzazione di chi nega l’Olocausto, con una banalizzazione atroce di una delle pagine più oscure e tragiche della storia umana.

Su cosa di basa la fattispecie di reato di negazionismo climatico?

Libertà e senso del ridicolo, dicevamo. Perché viene da immaginarlo questo mondo, questa eterna periferia costruita dal cemento di emergenze tutte diverse e al tempo stesso tutte uguali, nel cui ventre ci si lamenta di saturazione dei tribunali e poi si cerca di dare in pasto agli appetiti popolari nuovi reati, dai contorni evanescenti e contrastanti coi principi più elementari del nostro sistema penale.

Il “reato di negazionismo climatico”, ad esempio. Verrebbe quasi da volerla leggere, non fosse così pericolosa, una proposta di legge in tal senso. Perché incuriosisce cercare di capire come si potrebbe tipizzare per via legislativa una fattispecie di reato che nei fatti finirebbe con il basarsi su una Verità, in senso assoluto e con la maiuscola che appartiene solo alla religione e alla filosofia, stabilita per legge. Viene quasi da sperare che chi propone certe derive non si renda nemmeno conto di ciò che caldeggia, perché nei fatti il potenziale liberticida di una simile, ipotetica norma è totale e luminosamente evidente a chiunque sia in buonafede.

Paradosso tra i paradossi di una società in cui si predicano tolleranza e accettazione dell’altro, confronto dialettico e pluralismo espressivo, e poi si cerca di schiacciare sotto il tallone chiunque non sia gradito, chiunque esprima una opinione, per quanto ponderata, articolata e motivata, che non segue il verso della corrente emergenziale.

Emergenza segue emergenza. Un modello ormai rodato

E poco importa che si stia parlando di pandemie, di terrorismo o di cambiamento climatico, il modello ormai è mantra di Stato. Spettacolarizzazione terroristica, toni urlati ed escatologici, un profluvio oceanico di disastri, catastrofi, morti, pornografia del dolore e dell’emergenza a reti unificate, in cui la coscienza è appunto mobilitata totalmente contro il grande nemico. E nel mentre, tassello dopo tassello, strada dopo strada, questa società si centralizza in maniera sempre più verticistica, l’emergenza diventa corpo unico, agglomera e agglutina gli individui in una massa indistinta, con un potere che si espande sempre più capillarmente.

E il dissenziente, spesso semplicemente chi mantiene un barlume di razionalità e di spirito individuale e critico, viene spinto nel ghetto di una periferia sociale sempre più oscura, situata ai margini, e forse oltre i limiti del consesso civile. L’individuo cessa di essere cittadino, viene ridotto a suddito, nutrito dal getto continuo del linguaggio emergenziale.

Il pericolo dell’abuso di potere

Come scriveva Edmund Burke, quanto più grande è il potere, tanto più pericoloso è l’abuso. E questo potere che non ha più forme antagonistiche, alternative sensate, tutte finite schiacciate nel ghetto della non-rappresentazione, si rende tiranno e tende, per fisiologia, ad abusare della sua presenza e delle sue prerogative.
Ogni tema, ogni problema viene reso emergenza. E con questa semplice opera di maquillage nominalistico, con questa ingegneria sociale degna di miglior causa ci si sente legittimati a chiedere sempre più pressanti ed evidenti giri di vite contro la libertà individuale.

Al cittadino medio, il cui cervello rimanda in via continuativa le parole d’ordine del potere, non importa più nemmeno capire se una emergenza sia davvero una emergenza. Gli intellettuali, il mondo mass-mediatico, accademici, attori, musicisti e narcisi vari, tutti in processione come chierici ossequianti la religione dell’emergenza, coi suoi rituali e il suo perenne carnevale di sottomissione e conformismo.

La vita, o forse dovremmo dire la non-vita, che si sta edificando nel nome della soggezione ad emergenze presentate in modo sempre più artificiale e gestite con piglio di controllo capillare, è sciatta, grigia, insulsa. Prevenzione, precauzione, eradicazione di qualunque rischio, comandamenti di una società che anestetizza il senso individuale dello stare al mondo, e che annichilisce la consapevolezza che inventiva, progresso, innovazione hanno avuto origine e radice nel corso della storia umana proprio nella volontà, libera e consapevole, di assumersi dei rischi.

La promessa della sicurezza totale e la fine dell’umano

«Non siamo tanto più poveri quanto più siamo al sicuro, tanto più ricchi quanto più siamo esposti al pericolo? – non ci si deve esporre sempre di nuovo? Non aleggia un fiato di morte e di disfacimento su tutti quegli istituti dove la vita viene posposta al meccanismo della vita; negli uffici, nelle scuole pubbliche, nell’esercizio sicuro della funzione dei sacerdoti e via dicendo?», ha scritto Hugo von Hofmannsthal nel suo Il libro degli amici.
Promessa di una sicurezza totale, il “vivere”, rigorosamente virgolettato, una non-esistenza di piena, totale sicurezza, in cui sono altri a gestire ogni nostro passo, ogni nostra scelta, per metterci al sicuro, è nei fatti pienissimo incubo distopico. La fine dell’essere umano, ridotto a comoda argilla nelle mani di un potere senza più alcuna dimensione umana.

Andrea Venanzoni, al suo primo articolo per Tempi, è autore di “La tirannia dell’emergenza” (Liberilibri)

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