
La preghiera del mattino
Propaganda sui giornali e altri segnali della penetrazione cinese in Italia

Sulla Nuova Bussola quotidiana Stefano Magni scrive: «Le tre riflessioni che si impongono, su questo episodio apparentemente secondario, riguardano invece il futuro del giornalismo italiano. La prima è, generalmente, l’ambiguità del redazionale. Un lettore qualunque, un non-addetto ai lavori, lo scambierebbe per una sezione del quotidiano. In un redazionale, il lettore trova articoli, dati, interviste e pensa che si tratti di cose scritte dalla redazione, con lo stesso tipo di controllo e verifica delle fonti da parte del direttore. Ci sono poi articoli e interviste che sembrano redazionali, da quanto sono sbilanciati. Ma l’intervista a D’Alema pubblicata da Milano Finanza, ad esempio, non è semplicemente “di parte”, è targata chiaramente “Desk China”. I cinesi sono maestri in questo tipo di propaganda, anche su altri grandi quotidiani italiani. La seconda riflessione è, appunto, sulla propaganda cinese in Italia. Il nostro paese, dopo la firma dei protocolli della Nuova Via della Seta (2019), è uno dei più influenzati in assoluto, nel mondo occidentale. Nella prima fase della pandemia di Covid siamo addirittura diventati un caso di studio internazionale quanto a livello di esposizione alla propaganda cinese sui social network. Non a caso siamo stati il primo paese democratico ad aver adottato la stessa strategia di Pechino per la lotta al virus. Dei redazionali, pubblicati sul quotidiano confindustriale, così come su altri grandi quotidiani nazionali, sono una non-notizia, da questo punto di vista. Ma se mettiamo assieme il livello di propaganda sui social, la presenza cinese nelle università, la presenza di polizia d’oltre-mare di regioni cinesi in più di una città italiana, più la cooperazione assidua con tutti i mass media, inclusa l’Ansa (che rilancia notizie di Xinhua, l’agenzia stampa di Stato di Pechino), allora la cosa cambia. Siamo di fronte ad una penetrazione cinese politica, a tutti i livelli».
Magni commentando la protesta del comitato di redazione del Sole 24 ore per un’ambigua pubblicità della Cina, spiega l’influenza che Pechino riesce a esercitare sul nostro paese.
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Su Formiche Filippo Ravoni scrive: «I fattori principali che hanno spinto la Ndb ad accogliere l’Egitto come nuovo membro non sono così evidenti come quelli brasiliani. Ma si fondano sul fatto che il paese governato dal general Abdel Fattah al-Sisi deve avviare nel prossimo ventennio un significativo piano di investimenti infrastrutturali, che la Banca mondiale stima dal valore di 230 miliardi di dollari. L’Egitto in quanto tale è un paese strategico per mettere piede in Africa: dal canale di Suez alle riserve energetiche passando per la grande influenza che ha come portavoce della politica araba verso il palcoscenico africano. Non a caso la sede dell’Arab League è al Cairo e non a caso Arab Bank for Economic Development in Africa (Badea) ha la branch operativa dei progetti di investimento proprio al Cairo, oltre alla sede principale che si trova in Sudan a Karthum. Insomma, anche per la Cina vale il principio di “follow the money”. Se si inseguono le iniziative della Ndb si comprende come la politica economica finanziaria di Pechino finisca per condizionare il futuro quadro geopolitico globale».
Ravoni spiega la strategia egemonistica di Pechino che usa la sua banca “per lo sviluppo” (New Development Bank, Ndb) per aumentare controllo e influenza su Medio Orietne e continente africano.
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Su Affaritaliani Giuseppe Vatinno scrive: «Beppe (Mao) Grillo sono anni che flirta con la Cina ed il suo non è un amore platonico, da comico innamorato delle smancerie orientali. No, la sua passionaccia abbraccia e bacia il business, ma non quello piccolo, bensì quello su grande scala. Così per mostrare la sua benevolenza verso il Celeste Impero nel 2019 Di Maio, cioè allora l’Italia, firmò il memorandum chiamato della “Via della Seta” che si rinnova automaticamente a fine anno, Meloni permettendo. Taranto è una perla gustosa al confine tra due mari e comunque incastonata nel Mediterraneo. Una perla che ha sempre fatto gola a molti che se la vorrebbero pappare in un sol boccone per farne un hub strategico. Una vera porta di ingresso orientale all’Europa. Ogni tanto la vicenda riemerge dalle correnti carsiche della politica. L’ultima volta che se ne parlò seriamente fu una proposta di Romano Prodi nel 2006, in cui il leader emiliano si sentiva molto con gli occhi a mandorla. Ma non se ne fece niente».
Su Affaritaliani si racconta come il quadrilatero italiano pro Pechino (Massimo D’Alema–Romano Prodi–Giuseppe Conte–Beppe Grillo) punta al porto di Taranto.
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Su Startmag Marco Dell’Aguzzo scrive: «Gli Stati Uniti vogliono offrire al continente 55 miliardi in tre anni, di cui 21 miliardi in prestiti a nazioni a medio-basso reddito attraverso il Fondo monetario internazionale. Inoltre, lo scorso dicembre, durante lo Us-Africa Summit (il primo dal 2014), la segretaria del Commercio Gina Raimondo ha detto di voler vedere più investimenti del settore privato in Africa. Agli occhi degli Stati Uniti, l’Africa è importante anche per i giacimenti di minerali per la transizione energetica, come il litio e il cobalto per le batterie dei veicoli elettrici. Stando ai funzionari americani, il gruppo Wagner potrebbe svolgere una funzione di accaparramento di materie prime per Mosca: è proprio in Africa, peraltro, che la compagnia ha intenzione di riposizionarsi, adesso che ha annunciato la riduzione della presenza in Ucraina. Il Congo è un enorme produttore mondiale di cobalto, seguito in Africa dallo Zambia, che è inoltre il sesto maggiore produttore globale di rame, un altro metallo necessario alla transizione ecologica. La Cina possiede gran parte delle miniere di cobalto in Congo, ed è alla ricerca di ulteriori forniture di rame».
Dell’Aguzzo spiega come gli Stati Uniti giochino (in evidente ritardo) una partita strategica sull’Africa. Ad alcune personalità rilevanti sulla scena internazionale e ad alcuni qualificati opinionisti sfugge come predicare un certo tipo di multilateralismo significa dimenticare come vi sia in atto una sfida bipolare tra l’Occidente guidato dagli Stati Uniti e la Cina popolare per chi peserà maggiormente sulla scena globale. Una scena globale nella quale Washington e i suoi alleati penseranno che certi rapporti non siano modificabili, rischiando così di andare incontro al destino del Regno Unito a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando Londra, considerando inscalfibile la propria egemonia, si trovò di fronte al crescere del peso della nuova Germania unificata, e finì per trovare, come unica soluzione politica possibile, la guerra.
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