Prof, di chi mi posso fidare?

Di Emanuele Boffi
01 Marzo 2001
Un ragazzo accoltella la sua ex fidanzata fra i banchi di scuola. Il ministro De Mauro invoca subito l’introduzione degli psicologi negli istituti. Mentre impazza la ricostruzione della psiche del “baby killer” un professore di ginnastica continua a fare il suo mestiere: «educare i ragazzi a fare i conti con questa realtà»

«Sedici anni è l’età in cui ogni cosa è per sempre» ha commentato Gabriele Muccino regista di “Come te nessuno mai”, l’ultimo film che, secondo i quotidiani d’Italia, meglio dipinge la situazione affettiva della gioventù nostrana. Una giornalista del Corriere gli aveva chiesto un parere sulla tragica vicenda accaduta nella scuola “Erasmo da Rotterdam”. Roberto, un ragazzo di diciassettenne anni, aveva accoltellato la sua ex fidanzata, Manuela, durante l’intervallo. La sedicenne Erika non era ancora stata incriminata dell’omicido di sua madre e di suo fratellino. Sicuro che lui, Muccino, nuovo profeta generazionale, oggi direbbe ancora: «Sedici anni è l’età in cui ogni cosa è per sempre?» Forse è tutto qui l’errore. Nel giovanilismo scriteriato che confonde il “per sempre” con le burrasche sentimentali, emozionali, reattive dell’adolescente. Tranne poi, quando capitano i fattacci di cronaca, ricominciare con i buoni consigli su come amministrare i giovani e la loro emotività.

La fiera dello (psico) luogo comune
Editoriali: «I giovani? Non li sappiamo ascoltare». Commenti: «Gli adolescenti? Non li sappiamo capire» Omelie: «Che fare di fronte alla violenza da cui veniamo sconvolti? Occorre meditare, fare silenzio, recuperare quel dialogo che si è tragicamente interrotto». Pochi approfondimenti, molto sport nazionale d’analisi e opinione sul tipo psicologico del “giovane killer”. Una volta c’erano i preti, che incontravano i ragazzi in paese, e i genitori, che li crescevano, ed erano loro, legittimati dal rapporto personale, ad essere gli esperti. Oggi ci sono gli psicologi. E, dunque, «da anni Roberto cova in sé il germe del delitto», nel suo diario «il segreto della sua malattia», «nella sua scrittura – aggiunge la grafologa (ultima frontiera dell’analisi mentale dei giovani) – i segni di uno squilibrio». E accanto alla “psicologia del giovane killer” (che poi si allarga alla psico-famiglia, alla psico-società, alla psico-mondo), è la ricerca di un sistema che possa garantire un ritorno alla “normale amministrazione”. Perché, se qualcosa evade dal sistema, occorre che ci sia un colpevole, che, naturalmente, è sempre “qualcun altro”. Ma chi? La risposta facile facile è sempre la stessa: la Società. E così la strumentalizzazione impazza. A Giovanni Ingrascì, procuratore capo del Tribunale dei Minori, la tragedia suggerisce uno spot a favore della corporazione togata: «Chi dovrebbe svolgere una funzione educativa, dalla scuola ai politici, dà invece messaggi di delegittimazione verso il lavoro dei magistrati. Non possiamo meravigliarci che poi succedano queste cose». A Umberto Galimberti, editorialista di Repubblica, una generale reprimenda dei professori e della scuola che «non sa educare alle emozioni». Il filosofo non vuole avventurarsi a cercare risposte al perché la scuola «non sa educare». Ma il circo mediatico questa volta non ha fatto i conti con chi a scuola ci lavora.. A Galimberti risponde il giorno dopo Ave Ponzinelli, preside dell’Istituto Pareto: «il dramma della solitudine e dell’altrui qualunquismo imperversa tra i docenti e nella scuola. E troppo spesso anche gli esperti contribuiscono ad aggravarlo». E il preside del Liceo don Gnocchi di Carate Brianza, Franco Viganò, rincara la dose: «è proprio il sentimento, la sensazione della realtà, l’emotività che rende difficile per noi insegnanti educare i ragazzi a fare i conti con la realtà». «Viviamo – annota Emilio Tadini, scrittore e pittore – nel tempo del patetico e cerchiamo di eliminare il tragico». Per Francesco Valenti, rettore del collegio “Guastalla” di Milano, «I ragazzi a scuola non vengono per trovarsi di fronte persone imbrigliate in riunioni, compilazioni di registri e “registratori del sapere”. Cercano e chiedono qualcosa di più, un rapporto, una relazione, qualcuno che li educhi».

Prof perché?
Giancarlo è il professore che ha soccorso Manuela qualche istante dopo che la ragazza si è accasciata al suolo. Le è praticamente morta fra le braccia. Oggi racconta che, qualche giorno dopo la morte della sua alunna, una compagna ha implorato i professori: «aiutateci a capire che cosa è successo». E gli studenti in classe a chiedere «prof perché succedono queste cose? prof perché si uccide una persona cui si vuole bene? Prof perché?». E Giancarlo torna in classe, al suo posto, “da educatore”. E dice: «il problema della scuola è quello di introdurre i ragazzi alla risposta a queste domande, non attrezzarli a saper fare. La riforma pensa a studenti a cui basti insegnare l’educazione stradale e l’educazione ambientale per attrezzarli ad affrontare il mondo. Ma non basta. Occorre insegnar loro il significato delle cose, anche della morte e della violenza». E riprende in mano la predica di don Marcello Brambilla alla messa in suffragio per Monica (taz&bao di Tempi 8) e la rilegge assieme a loro. Li guarda e attacca «vogliamo essere felici, vogliamo che la vita sia grande, sia bella e cerchiamo nella nostra vita qualcosa che ci renda felici». E quelli lì ad incalzarlo: «prof, perché amare una persona se poi accadono queste cose? Prof, di chi mi posso fidare? Prof, può capitare anche a me?». E lui, di nuovo lì a spiegare, a parafrasare le frasi di don Marcello, a raccontare che la violenza «nasce dal fatto che noi di un particolare facciamo il tutto e vogliamo essere noi i padroni di questo particolare». Giancarlo non è scappato, come magari qualche suo collega. Non ha “lasciato passare l’acqua sotto i ponti” e ricominciato il tran tran quotidiano. Non ha evitato l’argomento tornando sul “già saputo” delle discipline scolastiche. Non ha demonizzato Roberto, non ha cercato facili soluzioni, non ha invocato l’aiuto degli psicologi, non ha richiamato generici valori. Ha scelto la via più difficile, come lui stesso racconta, «che è quella di fare i conti con la realtà di cui il male e la violenza è parte. Ma rimane, comunque e sempre, una realtà che mi è donata». Ammette che «non è tutto chiaro, tutto comprensibile, tutto facile» ma «non si può scappare. È un fatto che riguarda tutti. Sono queste domande e risposte che rimangono per sempre”» Lui, quarantenne, guarda i suoi alunni e li rincuora «non solo a sedici anni la vita è per sempre».

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