Tentar (un giudizio) non nuoce

Primo maggio, il senso del lavoro e della vacanza

Di Raffaele Cattaneo
04 Maggio 2024
Paradossalmente è più facile pensare al significato del lavoro proprio quando si può fare un momento di pausa. Qualche spunto di riflessione
Lavoro

LavoroQualche giorno di vacanza con mia moglie in Grecia nella settimana del 1 maggio, festa dei lavoratori, ma ancor più nella settimana santa ortodossa (quest’anno la Pasqua per loro cade il 5 maggio) che per dispensa papale è anche la settimana santa per la Chiesa cattolica greca, sono stati una occasione per riflettere sul senso del lavoro e anche del riposo e della vacanza.

Troppo spesso siamo così affaccendati nel lavoro che diventa facile perderne il significato. Sembriamo quei gitanti inesperti che camminano su un sentiero di montagna guardandosi solo i piedi e così poi smarriscono la via. Succede anche a me: l’urgenza degli impegni pressanti e la routine quotidiana favoriscono un fare senza pensare, un agire senza riflettere sulla ragione ultima di quello che facciamo.

Così paradossalmente è più facile pensare al significato del lavoro proprio quando si può fare un momento di pausa. E insieme questo mette di fronte alle domande che nascono proprio dall’essere in vacanza.

Chi ci sta a fianco

«Lavorare è fare un uomo al tempo stesso di una cosa», diceva san Giovanni Paolo II, un concetto più volte ripetuto nel suo insegnamento e poi sviluppato nell’Enciclica Laborem Exercens del 1983. Nel nostro fare siamo così protesi alla realizzazione delle “cose” del nostro lavoro – gli oggetti, prodotti o servizi, ma anche gli appuntamenti, le riunioni, ecc. – che perdiamo di vista l’altra dimensione fondamentale: le relazioni con le persone che lavorano con noi e l’impatto che il lavoro ha su noi stessi. Bisogna tenere lo sguardo alto sull’orizzonte, sollevarlo dai “piedi” della quotidianità per ricordare che la qualità di ciò che facciamo parla di noi, ha una dignità in sé, dunque merita tutta la nostra attenzione e il nostro impegno; lo racconta bene l’esempio famoso della sedia di Péguy; ma anche il rapporto con chi ci sta di fianco e con cui “facciamo” è da costruire, edificare e preservare con lo stesso impegno. Questo è più facile da dimenticare ma non conta di meno. L’essere attenti, l’avere a cuore chi lavora con noi non ha la forma di una attenzione strumentale, interessata e un po’ viscida; può anche essere una ruvida paternità, come quella di tanti maestri di bottega. Ma non può mancare mai la cura di chi lavora con noi!

Il lavoro poi si accompagna sempre alla dimensione del sacrificio, del “sudore della fronte”. Questo sacrificio è benedetto, non bisogna dimenticarlo mai, perché è con questi mattoni che si costruisce la dignità che il lavoro porta con sé. Al tempo stesso però ogni sacrifico, per essere sopportabile, chiede un senso. Mentre scrivo queste righe, una campana di una chiesina ortodossa qui vicino, batte ripetutamente e senza sosta i rintocchi del lutto per il Venerdì Santo… ecco qui io trovo il senso ultimo del nostro sacrificio quotidiano: contribuire a una costruzione, a una con-creazione, che possa avere un senso infinito e un orizzonte salvifico dentro l’estremo sacrificio, quello di un Dio che muore in Croce per salvare tutta l’umanità. Forse nel sacrificio che il lavoro richiede c’è anche un po’ della maledizione della cacciata dal Paradiso terrestre: sarebbe bello godere della dignità e dei frutti del lavoro senza fare fatica! Ma c’è sempre una benedizione nel sacrificio, che oltrepassa la fatica richiesta.

Sofferenza e salvezza

Anche la vacanza però porta con sé alcune domande. Al di là di un certo moralismo puritano sempre difficile da abbandonare, con gli amici che ci accompagnano discutevamo del fatto che godere della bellezza di questi luoghi e della piacevolezza di questi giorni stride con la sofferenza che tanti in questo stesso momento sono costretti a subire senza colpa. Penso a chi è sotto le bombe in Ucraina, a chi è sfollato e senza speranza a Gaza, a chi teme per un parente ostaggio di Hamas in Israele, a chi è angosciato per una malattia.

Anche questo apre ad una dimensione misteriosa. Certamente la “vita buona”, come la chiamava il cardinale Angelo Scola, è anche figlia di scelte personali giuste. Ma sarebbe troppo poco liquidare il tutto come l’esito di una equazione algebrica. Chiaramente non è così: c’è sempre nel mondo il malvagio che gode immeritatamente e il giusto che patisce dolore e sofferenza senza colpa. Perché questa apparente ingiustizia? Perché il dolore innocente? Perché io non mi sento a posto e non sto in fondo bene se quando gioisco io qualcuno piange?

Anche questa è una domanda cui sarebbe presuntuoso voler dare una risposta immediata e semplice. Però anche qui mi soccorre l’immagine di quell’ebreo giusto di duemila anni fa ingiustamente condannato al supplizio della Croce per un calcolo di opportunità politica, comprensibile nella logica del mondo e incomprensibile in quella della verità. L’idea che questa sofferenza sia stata una scelta libera, una obbedienza consapevole di Dio per mostrare una via all’uomo che sta all’opposto di quello che per noi è umanamente comprensibile e desiderabile, indica al tempo stesso una strada per accompagnare, se non per comprendere fino in fondo, ogni sofferenza; rappresenta una sfida alla ragione e al cuore che lascia a bocca spalancata. Sì perché a ciascuno che soffre si può dire: “Guarda Lui! Dillo a Lui!”. Chi meglio di un Re dell’Universo, di un figlio di Dio che sceglie la via della sofferenza per portare l’uomo a salvezza può illuminare il mistero del dolore?

La creatività di cui siamo capaci

Dunque viviamo ciò che Dio ci dà da vivere come un dono, con la serenità che ci è consentita e senza moralismi, ma teniamo viva sempre la domanda che l’ingiustizia e il dolore generano in noi. Guai a chi si sente giusto e senza colpa, pensando di meritare ciò che ha solo in forza delle proprie azioni! E al tempo stesso guai a chi, godendo di una giornata di sole, si dovesse preoccupare perché domani potrebbe piovere. Nulla è più triste dell’ingratitudine per i doni ricevuti! E nulla più gretto di chi si sente pieno di sé, come se il godere di ciò che si riceve fosse merito esclusivamente nostro.

In questa prospettiva anche il lavoro è un dono, di cui ringraziare perché c’è e da onorare con tutta la passione, la creatività e la costruttività di cui siamo capaci.

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