Premierato e autonomia non “spaccheranno l’Italia”

L’elezione diretta rafforza la legittimazione politica del premier e darà stabilità ai governi. Ma ci sono delle controindicazioni, ecco quali. E avanti sull'autonomia: lo sviluppo si fa dal basso, non dall’alto

Manifestazione contro le riforme del premierato e dell’autonomia promossa dalle opposizioni, Roma, 18 giugno 2024 (Ansa)

Il fatto politico di questa settimana è coinciso con l’approvazione in via definitiva della legge “Calderoli” sulle procedure per l’attuazione dell’autonomia differenziata e con quella al Senato, in prima lettura, della riforma costituzionale che introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, il cosiddetto premierato.

Le opposizioni di sinistra sono corse a strapparsi le vesti denunciando lo scandalo dello scambio tra Lega e Fdi che si sarebbero fatti un favore reciproco, col sostegno di tutta la maggioranza di centrodestra, per portare a casa due bandiere: l’autonomia per Salvini e il premierato per Meloni. Riforme bollate entrambe come “spacca Italia”, “Una svolta plebiscitaria e secessionista”, “Colpo mortale a Parlamento e Carta”. È proprio così? Proviamo a dare un giudizio.

Già lo aveva capito De Gasperi

Il premierato ha lo scopo di rafforzare la stabilità e la durata dei governi, attraverso l’elezione diretta del primo ministro, che verrà così scelto dal popolo e non più dagli accordi fra partiti di maggioranza o, come accaduto nel caso dei cosiddetti “governi tecnici”, da scelte di palazzo. È una cosa buona? Certamente il tema della stabilità e della durata dei governi è da sempre un punto critico della nostra Repubblica. Dal 1948 ad oggi, in Italia si sono alternati 67 governi, guidati da 29 presidenti del Consiglio diversi. In media, i governi italiani sono rimasti in carica per 414 giorni, meno di un anno e due mesi, e hanno governato effettivamente per 380 giorni, poco più di un anno. Un tempo insufficiente per impostare e portare a termine qualunque riforma significativa.

È un problema da sempre denunciato, che Alcide De Gasperi aveva già percepito nel 1954 quando provò a rafforzare la maggioranza con quella che passò alla storia come la “legge truffa” e che gli costò la fine della sua esperienza come capo del governo. A livello locale è stato risolto con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti di Regione, che gli elettori mi pare abbiano gradito. L’elezione diretta rafforza la legittimazione politica del premier, garantisce stabilità alla sua funzione, aumenterà certamente la durata media dei governi. Questo fatto è positivo e auspicabile. Certamente è un passo nella direzione del presidenzialismo, ma senza stravolgere il nostro sistema costituzionale arrivando a soluzioni sul modello americano (elezione del presidente che riassume in sé le funzioni di capo dello stato e capo del governo) o francese (elezione diretta del capo dello stato che ha anche potere di indirizzo sul governo).

Due rischi per il premierato

Ci sono controindicazioni? Io ne vedo principalmente due: rafforzando i poteri del premier bisognerebbe contemporaneamente irrobustire i poteri degli organismi di garanzia, per ristabilire quei checks and balances (controlli e bilanciamenti) che sono alla base di ogni corretto equilibrio di poteri, fondamento di ogni sana democrazia. Inoltre, l’elezione diretta consoliderà la tendenza al leaderismo che in politica non è stato solo un bene.

Resta però un fatto: nella Seconda repubblica si è già andati abbondantemente in questa direzione. Tutti noi ci siamo abituati ad andare a votare partiti e coalizioni che hanno esplicitato l’indicazione del candidato premier, spesso addirittura nel simbolo del partito. Dunque, la riforma avvicina la costituzione formale a quella materiale, di fatto già passata nelle abitudini degli elettori. Per questo motivo non vedo rischi particolari e, se vogliamo provare a cambiare il nostro sistema istituzionale, questa in fondo è la strada meno scivolosa.

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Qualcuno obietta che così si indeboliscono i poteri del presidente della Repubblica. Formalmente non è vero, sostanzialmente un po’ sì, nel senso che saranno meno possibili quelle operazioni di palazzo a cui ci aveva abituato per esempio “re Giorgio” Napolitano o i tentativi di Scalfaro contro Berlusconi che le cronache recentemente hanno riportato alla luce. Non è tanto questo che mi preoccupa, quanto il fatto che l’elezione diretta difficilmente premierà figure equilibrate e pacate come l’attuale presidente Mattarella, di cui c’è tanto bisogno. Resterà però la possibilità per il Parlamento di scegliere questo profilo per il Capo dello Stato.

Ma quale “spacca Italia”

Sull’autonomia differenziata mi sono già espresso più volte, anche da queste pagine.

In sintesi, io credo che chi pensa che lo sviluppo si faccia dal basso, non dall’alto, che la creazione della ricchezza richieda di investire sulla responsabilità dei territori e sulla capacità delle classi dirigenti locali di assumersi fino in fondo il proprio compito di governo, e non sulla redistribuzione assistenzialistica di risorse dallo Stato centrale ai territori più svantaggiati, non possa che salutare con favore questa possibilità.

Ricordo che la legge si limita a disciplinare le procedure, ma non entra nel merito dei contenuti delle “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” previste dall’art.116 c.3 della Costituzione. Questo è lasciato all’iniziativa delle singole regioni. Si tratta di una facoltà e non di un obbligo. Per chi non vorrà cimentarsi resterà tutto come prima.

Non ci sarà lo scippo di risorse dei poveri verso i ricchi paventato dalla sinistra. Al contrario, la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni e il loro finanziamento, condizione preliminare per la maggiore autonomia nelle gran parte delle materie, assicurerà unitarietà di servizi e prestazioni di base meglio di quanto non avvenga oggi, quando i LEP non esistono e non sono garantiti. Se consideriamo che l’assetto attuale non ha certo ridotto squilibri e disparità fra nord e sud, provare la strada dell’autonomia differenziata non mi pare affatto uno scandalo “spacca Italia”, ma un investimento sulla responsabilità e i talenti delle diverse regioni, che il sud dovrebbe desiderare ancor più del nord.

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