
Terra di nessuno
La porta aperta dell’Arsenale, quel miracolo nell’ex fabbrica di armi di Torino
Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Torino, maggio. Una grandissima vecchia fabbrica di mattoni rossi a Porta Palazzo. Era l’Arsenale militare dei Savoia. Qui sono state prodotte le armi italiane della Prima Guerra mondiale, e in parte quelle della Seconda. Negli anni Ottanta l’Arsenale era un rudere. Un impiegato di banca, Ernesto Olivero, e i suoi amici insediarono nei capannoni abbandonati il Sermig, Servizio Missionario Giovani. Con le loro mani cominciarono a ricostruirlo. Iniziarono dalla cappella, perché, disse Olivero, «qui ci vuole un motore». E un forno divenne il tabernacolo, e i banchi degli operai, un altare.
Da anni il Sermig è una porta spalancata a Borgo Dora, una Torino piena di immigrati. Qui accolgono senzatetto, profughi, madri sole con il loro bambino; e insegnano l’italiano agli stranieri, e fanno il doposcuola ai ragazzini venuti da Paesi lontani. L’Arsenale ora ha i muri candidi, il giardino fiorito, il parco giochi. Ma, negli angoli, sono rimaste le macchine della vecchia fabbrica: nere, gigantesche, mostruose. Presse, tubi, volani, condutture, rubinetti, in un groviglio di forme minacciose. Di qui uscirono i cannoni diretti alle trincee della Grande Guerra. In un video ti mostrano com’era, l’officina, quando ci lavoravano migliaia di operai. Per un attimo senti anche il frastuono cupo delle macchine lanciate nella produzione; e ti immagini le maestranze, nell’odore di ferro e carbone, le mani nere, i polmoni gonfi di fumi.
In questa splendida giornata di maggio all’Arsenale giocano i bambini, e a sera dalle cucine si allargherà un buon odore di sugo. Ma le macchine, le grosse macchine nere sono rimaste, negli angoli, memoria e ammonimento. Forse, ti chiedi, anche le armi con cui tuo padre andò in Grecia e poi in Russia, venivano da qui; erano uscite nere, lucenti, dalla grande fucina a Borgo Dora. Chissà quanti morti, quante vedove, quanti orfani hanno fatto le armi plasmate in questi capannoni.
Ma questo posto com’è un altro ora, diametralmente opposto, con le viti americane che ne coprono i mattoni del verde rigoglioso di maggio. E ti stupisce, la rivoluzione.
Ernesto Olivero oggi ha 75 anni. Indica la porta dell’Arsenale, aperta 24 ore su 24, e spiega che è la cosa più importante di tutte. Perché è lì che si presenta ogni giorno un nuovo volto: di uno che ha fame, o che scappa, oppure che vuole dare una mano. L’essenziale, è che la porta si apra. La porta come il luogo in cui Dio, nel volto di uno sconosciuto, si affaccia.
E guardi gli occhi miti di quest’uomo e pensi che è straordinario, cos’è riuscito a fare dal niente. Dal cortile vengono voci di ragazzi. Si chiamano Nadir o Farouk, ma parlano italiano. La porta aperta, sembra operare un miracolo.
Negli angoli rimangono le macchine livide, arcigne, di vedetta. Feroci e inutili, zittito il loro sferragliare minaccioso. In chiesa, su un vecchio banco su cui si fabbricavano i fucili sta un Cristo di legno. Il motore, come disse tanti anni fa ai suoi un uomo, che ci crede davvero.
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