Populisti. Mappatura di un fenomeno che il tic antifascista non riesce ad arginare

Di Rodolfo Casadei
15 Dicembre 2016
Dall’Austria alla Francia, dall’Italia alla Polonia, ecco cosa accomuna i partiti che rivendicano il diritto a una “propria patria”

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti).

Il sospiro di sollievo con cui esponenti politici di primo piano di tutta Europa hanno accolto la mancata elezione di Norbert Hofer alla presidenza dell’Austria ha più di qualcosa di surreale. Sì, è vero, si è evitato l’evento senza precedenti di un candidato dell’estrema destra eletto a capo di Stato in un paese europeo dopo la Seconda Guerra mondiale. Ma la soddisfazione per lo scampato pericolo si accompagna alla cecità che permette di ignorare, direbbe Pier Luigi Bersani, la mucca nel corridoio: in una dozzina di paesi d’Europa, quasi tutti dell’Unione Europea, partiti populisti della destra radicale identitaria sono già da tempo al governo, lo sono stati o lo sono a livello locale.

È il caso dell’Austria: mentre denunciano il Partito della libertà austriaco (Fpö) come partito criptonazista, xenofobo e antieuropeo, socialisti e democristiani ci governano in provincia. L’Fpö amministra dal maggio 2015 il Burgenland come partner del Partito socialdemocratico (Spö) e l’Alta Austria dall’ottobre 2015 come alleato del Partito popolare tedesco (Övp). È vero che nel sistema austriaco i governi di coalizione sono in pratica obbligatori, ma socialisti e democristiani avrebbero potuto coalizzarsi fra loro e lasciare all’estrema destra nulla o quasi. Invece l’hanno scelta come partner principale. Per non parlare poi del passato, quando sotto la guida del suo leader carismatico Jörg Haider l’Fpö prese parte a esecutivi nazionali a guida popolare fra il 2000 e il 2006 e governò la regione della Carinzia prima come partner dei democristiani (1989-1991) e poi in posizione egemone (1999-2008).

Nel resto d’Europa le cose non sono andate e non vanno diversamente. In Svizzera, Italia, Norvegia, Finlandia e Slovacchia partiti populisti anti-immigrazione ed euroscettici partecipano o hanno partecipato a governi di coalizione, in alcuni casi da molto tempo. Il caso di più vecchia data è quello dell’Unione democratica di centro-Partito popolare svizzero (Udc-Svp), che ha svoltato a destra in modo radicale all’inizio degli anni Novanta sotto la guida di Christoph Blocher, assumendo posizioni anti-immigrazione, anti-Ue e anti-islam. In tal modo i popolari svizzeri sono passati dall’11,9 per cento del 1991 al 22,5 del 1999 al 29,4 dello scorso anno nelle varie elezioni federali. Per tutto questo tempo il partito ha avuto nel Consiglio federale (il governo svizzero) prima uno e poi due membri, e non ha mai smorzato i toni del suo discorso. In Italia, com’è noto, la Lega Nord ha partecipato per la prima volta a un governo nel 1994, dopo aver conquistato 180 parlamentari in coalizione con l’allora debuttante Forza Italia. Quell’esperienza durò sette mesi, ma nel 2001 e nel 2008 la Lega tornò ad avere ministri negli esecutivi di Silvio Berlusconi.

Altri partiti che vengono classificati come populisti di destra ma il cui sostegno esterno o partecipazione diretta al governo nazionale retto da partiti del mainstream sono stati accettati, sono stati in Olanda la Lista Pim Fortuyn e il Partito per la libertà di Geert Wilders e in Danimarca il Partito del popolo danese. La formazione politica olandese che prendeva il nome dal suo leader, un editorialista e accademico che fu assassinato da un estremista di sinistra alla vigilia delle elezioni politiche del 2002, partecipò a una breve esperienza di governo di coalizione all’indomani del voto che la consacrò seconda forza politica del paese. Jan Peter Balkenende, leader del principale partito democristiano, assegnò ben quattro ministeri alla Lista Fortuyn, ma l’esecutivo durò pochi mesi. Nel 2010 un altro primo ministro olandese democristiano, Mark Rutte, si assicurò l’appoggio, stavolta esterno, di un partito populista di destra: quello guidato da Geert Wilders, personaggio talmente sulfureo che l’anno prima il governo di Londra l’aveva respinto alla frontiera per impedirgli di tenere incontri pubblici sul suolo britannico. Il Partito per la libertà uscì dalla maggioranza nel 2012.

Esperienze di governo
Molto più duratura la storia di sostegno esterno a un governo di centrodestra da parte del Partito del popolo danese: a partire dal 2001 fino ad oggi, il partito fondato da Pia Kjaersgard ha garantito la maggioranza a ben quattro governi (compreso quello oggi in carica presieduto dal liberalconservatore Lars Lokke Rasmussen) in cambio di politiche restrittive sull’immigrazione e ostili al multiculturalismo.

Più recente l’ingresso nella stanza dei bottoni dei populisti norvegesi e finlandesi. A Oslo il Partito del progresso è salito al governo nel 2013 col Partito conservatore, dopo essersi classificato secondo o terzo in tutte le elezioni a partire dal 1997. Specializzato in proposte di legge restrittive sull’immigrazione e i richiedenti asilo, ha ottenuto il ministero per l’Immigrazione dal dicembre 2015. Il 2015 è anche l’anno della prima volta al governo per i Veri Finlandesi, partito euroscettico e contrario alla solidarietà europea nell’accoglienza dei richiedenti asilo, che ora detiene quattro portafogli (incluso quello del ministero degli Esteri) in un esecutivo formato da tre partiti conservatori.

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Va e viene dal governo sin dal 1992 il Partito nazionale slovacco (Sns), accusato di razzismo, xenofobia e filofascismo perché considerato erede dell’omonimo partito che nella Seconda Guerra mondiale collaborò con i nazisti. Oggi l’Sns, che ha moderato nel tempo le sue posizioni ed è classificato come populista di destra, è presente nell’esecutivo di Robert Fico, (socialdemocratico considerato un populista di sinistra) sotto forma di tre ministri indipendenti indicati dal partito.

Nei paesi dell’Est
Slovacchia significa Europa dell’Est, e con questa parte del continente entriamo nel regno dei partiti populisti di destra al potere in posizione di forza egemone. I due casi più eclatanti sono l’Ungheria di Viktor Orban, leader di Fidesz, partito passato dal liberalismo conservatore al nazionalismo conservatore tinto di euroscetticismo, e la Polonia del presidente Andrzej Duda e del primo ministro Beata Szydlo, esponenti del partito Legge e Giustizia fondato dai fratelli Kaczynski (Duda si è dimesso dai suoi ranghi all’indomani dell’elezione a capo dello Stato) classificato come nazional-conservatore e moderatamente euroscettico. Si tratta di veri e propri partiti di massa, che hanno conquistato rispettivamente il primo il 37,6 per cento dei voti alle ultime elezioni politiche e il secondo il 44,8 (presentandosi in un’unica lista con un piccolo partito democristiano). Entrambi i governi da essi dominati hanno avuto problemi con l’Unione Europea, soprattutto quello di Beata Szydlo, contro il quale è stata aperta una procedura per misure politiche che secondo Bruxelles mettono a rischio lo Stato di diritto in materia di Corte costituzionale e media pubblici.

La generica etichetta di populisti di destra può essere contestata o addirittura rigettata per i partiti sin qui elencati, anche perché essi risultano affiliati a famiglie politiche del Parlamento europeo fra loro diverse. Fanno parte del gruppo dei Conservatori e riformisti europei (dove il partito più importante è il Partito conservatore britannico) Legge e Giustizia, i Veri Finlandesi, il Partito del popolo danese. All’Europa delle Nazioni e delle Libertà appartengono sia partiti che sono o sono stati al governo come il Partito per la libertà olandese, la Lega Nord e l’Fpö austriaco, sia partiti sempre tenuti ai margini come il Front National francese e il Vlaams Belang belga, e Alternativa per la Germania (AfD), in ascesa ma non rappresentata al Bundestag. L’Ukip che fu di Nigel Farage, il partito all’origine della Brexit, e i Democratici svedesi (altra formazione del “populismo scandinavo”, l’unica non associata a maggioranze di governo) fanno parte del gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta (Efdd), che quando si chiamava Europa della libertà e della democrazia (Efd) comprendeva anche Lega Nord, Partito del popolo danese, Veri Finlandesi e Partito nazionale slovacco. Infine, l’ungherese Fidesz fa parte del Partito popolare europeo.

Putin sì, Putin no
Quale categoria un po’ più identificante del populismo di destra si può allora invocare come comune a tutte queste forze politiche? Probabilmente quella dell’identitarismo. L’ideologia e la politica identitarie accomunano un ampio arco di forze che vanno dalla destra più estrema (quella riunita nell’Alleanza europea dei Movimenti nazionalisti, dove troviamo lo Jobbik ungherese, il British National Party e il Movimento Sociale-Fiamma Tricolore) a quella populista ma integrata.

Le caratteristiche comuni dei movimenti identitari di tutta Europa sono l’ostilità all’immigrazione di massa vista come “sostituzione di popolazione”, la denuncia della diffusione dell’islam in Europa considerato culturalmente incompatibile con l’identità europea e veicolo di un’islamizzazione del continente, la diffidenza verso il sistema dell’informazione dei grandi giornali e televisioni, l’euroscetticismo in varie gradazioni che vanno dalla denuncia dell’invadenza delle norme comunitarie all’esplicita volontà di vedere il proprio paese uscire dall’Unione Europea, la preferenza per il locale rispetto al globale, la rivendicazione di un “diritto alla propria patria” come parte integrante dei diritti umani, l’insofferenza per l’egemonia degli Stati Uniti (mentre gli atteggiamenti nei confronti della Russia non fanno l’unanimità, oscillando fra la simpatia ostentata verso Putin da parte di Matteo Salvini e Marine Le Pen e l’escalation militare anti-Mosca in funzione dissuasiva perorata dai populisti polacchi e finlandesi).

L’integrazione dei partiti della destra populista nei sistemi politici nazionali e l’identificazione dell’identitarismo come loro connotato ideologico di fondo spiegano la vittoria di Alexander Van der Bellen e la sconfitta di Hofer in Austria. Il risultato eccezionale del candidato del Fpö al primo e al secondo turno annullato delle presidenziali è collegato alla crisi migratoria che l’Austria ha vissuto nel 2015, ma che non si è ripetuta nell’estate scorsa dopo che il governo di Vienna ha provveduto insieme ai paesi della regione a bloccare la rotta balcanica e ha approvato una legge restrittiva sui richiedenti asilo.

Retorica e senso pratico
Questi provvedimenti a tutela dell’identità austriaca hanno tolto il terreno sotto i piedi al candidato della destra. Van der Bellen, un Verde che si è presentato come indipendente, per parte sua è stato abile a non demonizzare l’avversario, a dibattere con lui come fosse un qualunque competitore, mentre a rilanciare l’allarme sul pericolo di un presidente xenofobo e criptonazista provvedevano i militanti di base della sua campagna. Hofer invece ha assunto i toni della rispettabilità solo nell’ultima parte della campagna elettorale, per troppo tempo ha insistito sull’emergenza profughi quando questa non aveva più impatto psicologico sugli elettori e sulla necessità che l’Austria uscisse dall’Unione Europea.

Ma gli austriaci hanno già visto che la partecipazione all’Unione non impedisce loro di controllare le frontiere se lo vogliono, mentre continuano a godere del plusvalore strategico di appartenere a un ente sovranazionale: per un piccolo paese (l’Austria ha meno di 9 milioni di abitanti) i vantaggi superano normalmente gli svantaggi. Quella di Van der Bellen su Hofer non è stata la vittoria dell’antifascismo sul fascismo, ma del senso pratico sulla retorica.

@RodolfoCasadei

Foto: Ansa

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