
Politicamente corretto, la nuova Inquisizione

Uno spettro si aggira per l’Europa: quello della Santa Inquisizione del politicamente corretto. Anzi, per la precisione il paragone storico va fatto con l’Inquisizione spagnola: come quella aveva l’obiettivo di sbarazzare Castiglia e Aragona della presenza degli ebrei, così l’odierna intende espellere simbolicamente dalla società i diversamente pensanti, ovvero condannarli alla morte civile, ben riassunta dallo slogan «non avete il diritto di essere ascoltati». E allo stesso modo ricorre a pretesti e false accuse, crea un clima di caccia alle streghe e di occhiuta vigilanza, alterna pene lievi e pene pesantissime per tenere sulla corda i dissenzienti con la sua imprevedibilità.
Finkielkraut alla gogna
L’ultima prodezza di questa Inquisizione, la più grossa, arriva dalla Francia. Nel corso di un talk-show televisivo nello stile dell’informazione-spettacolo, una neo-femminista accusa Alain Finkielkraut di banalizzare gli stupri perché aveva criticato il concetto di «cultura dello stupro». L’accademico di Francia reagisce con l’ironia: «Certo! Io dico agli uomini: violentate le donne! Del resto io violento la mia tutte le sere, lei non ne può più…». Poteva finire lì, o con l’ottusa replica dell’interlocutrice che controbatte: «Lei non ha diritto di dire questo!». E invece no: il giorno dopo il Partito socialista ha presentato un esposto al Consiglio superiore dell’audiovisuale, mentre quattro deputati di France insoumise (estrema sinistra) hanno denunciato Finkielkraut al procuratore della Repubblica in base all’articolo 40 del codice di procedura penale per incitazione «all’odio o alla violenza nei confronti di una persona o di un gruppo di persone a motivo del loro sesso, orientamento sessuale o identità di genere». Sulla piattaforma change.org è stata lanciata una petizione, che finora ha raccolto quasi 13 mila firme, affinché l’Accademico di Francia sia privato della trasmissione (Répliques) che conduce da 30 anni su France Culture. La portavoce del governo francese Sibeth Ndiaye ha dichiarato di vedere in lui «l’incarnazione di un mondo nel quale lo stupro non era grave» e che bene hanno fatto quei deputati francesi che lo hanno denunciato alla giustizia.
Tu non puoi parlare
Un caso di isteria collettiva? Sì, ma con cause diverse dai traumi infantili o dagli stati depressivi che gli psicanalisti amano diagnosticare in proposito. Come ha spiegato Mathieu Bock-Côté commentando questo caso,
«il progressismo intende esercitare un monopolio sulla definizione dei codici della rispettabilità politico-mediatica. Ci vede il fondamento del proprio potere. È per questo che il minimo disaccordo formulato in termini non autorizzati deve essere sanzionato. La sua formula preferita è “non avete il diritto di dire questo”. Le voci discordanti devono essere cacciate. La sinistra mediatica crede che sia sufficiente una parola di dissidenza che descrive il reale senza il filtro diversitario (cioè del multiculturalismo visto come un bene sempre e comunque, ndr) perché il suo edificio sia scosso. Poiché questa parola potrebbe risvegliare i pregiudizi della popolazione e spingerla a non credere più di vivere nel migliore dei mondi possibili».
Colpirne uno…
Il politicamente corretto deve continuamente dimostrare la sua forza imponendo a tutti di pensare e parlare nel modo richiesto; se non lo fa, la sua debolezza si rivela immediatamente, perché pensieri e parole in libertà rischiano di svelare che le cose non stanno come si voleva far credere. Esattamente come in tutti i regimi della storia: non è permessa la minima crepa nell’edificio del discorso pubblico, perché inevitabilmente da lì comincerebbe a venire giù tutta la costruzione. Chi osa tentare di produrre la piccola crepa deve essere trattato con tutta la durezza possibile, bisogna rendergli la vita impossibile, anche a costo di montare false accuse contro di lui: sarà un esempio per tutti gli altri. Come diceva Mao Zedong e come scrivevano le Brigate Rosse: colpiscine uno per educarne cento.
Casi creati ad arte
Ma non è solo questo: i “casi” vanno creati anche quando non ci sono perché le avanguardie del politicamente corretto devono continuamente legittimare il proprio ruolo, devono dimostrare la loro utilità sociale e giustificare la propria egemonia culturale. Per questo bisogna continuamente rilanciare emergenze razziste, sessiste, omofobe, islamofobe, antisemite (ma solo se l’antisemitismo in questione è attribuibile a rigurgiti nazi-fascisti, tacendo su quello islamista), ecc. Finkielkraut è stato attaccato scompostamente nel corso della trasmissione televisiva e l’indomani preso a cannonate perché ha negato che in Francia ci sia una «cultura dello stupro» e ha deplorato l’indebita «estensione del concetto di sessismo», finalizzati a far credere «che in Francia ci sarebbe un numero enorme di violentatori potenziali». Era la cosa peggiore che poteva fare: ha messo in dubbio che la società francese abbia bisogno dei sacerdoti dell’antisessismo, dei rieducatori del popolo rozzo e selvatico. Meritava l’anatema.
La battuta di Cellino su Balotelli
Non stiamo molto meglio in Italia, dove allo stesso modo si inventano casi che non esistono per mantenere sempre alta la tensione sulle tematiche predilette del politicamente corretto. È stata definita «frase shock», «incresciosa», «frase sbagliata che riflette il peggio del paese» una semplice battuta non riuscita del presidente del Brescia calcio Massimo Cellino su un suo giocatore di colore in crisi: «Balotelli è nero, sta provando a schiarirsi…». La frase appartiene evidentemente al repertorio dell’umorismo e sfrutta doppi sensi semantici che l’uso linguistico italiano consente. Perché vederci un’espressione razzista? La battuta, benché poco riuscita ai limiti della freddura, non contiene nessuna connotazione stereotipata, nessun cliché negativo legato alla razza, al contrario: sdrammatizza la questione razziale. Ma è proprio questa la colpa di Cellino: ha profanato il nuovo sacro, quello dell’antirazzismo. Una volta si diceva “scherza coi fanti e lascia stare i santi”: sulle cose di Chiesa barzellette e battute erano considerate sconvenienti o addirittura blasfeme. Per la religione si poteva anche uccidere e morire, ma di essa non si doveva mai ridere. Oggi questa riserva del sacro è passata al pantheon del politicamente corretto, di cui la lotta antirazzista è una delle divinità principali. Dissacrare la questione razziale scherzandoci sopra dovrebbe essere considerato positivo, dovrebbe essere la strada per esorcizzare il potenziale di scontro sociale che essa contiene, per disinnescare la guerra di religione in cui sempre possono scivolare le sacralizzazioni, e invece no: i nuovi sacerdoti hanno bisogno che la fiamma della guerra di religione sia mantenuta viva, perché da essa dipende il loro ruolo pubblico e il loro ascendente sociale.
Da Feltri a Sgarbi
È per questo che le pagine web di corriere.it, repubblica.it e ansa.it pubblicano quasi tutti i giorni notizie che consistono nel denunciare “frasi shock”, che spesso non sono tali, di personaggi del mondo dello sport, dello spettacolo o della politica sui temi della razza, del sesso, della famiglia, delle minoranze etniche e religiose. Per i portavoce del politicamente corretto la democrazia non è conversazione politica dove si confrontano proposte e ipotesi diverse sui valori e sul governo della cosa pubblica, ma è un processo da loro guidato che va dall’inciviltà alla civiltà attraverso una diuturna lotta contro i pregiudizi e le arretratezze del popolo bue e di ceti intellettuali attardati (come Finkielkraut). Anche i filmati di risse verbali e scambi sopra le righe nei talk-show e in parlamento, altra presenza immancabile nelle pagine web delle grandi testate, hanno questa funzione: mostrare che il genuino dibattito politico fra punti di vista diversi è impossibile, che i suoi esiti sono grotteschi e incivili. Clip di trasmissioni nelle quali intervengono esponenti di punti di vista anticonformisti come Vittorio Feltri e Vittorio Sgarbi vengono riproposti serialmente non perché si consideri interessante far conoscere cosa pensano, ma per offrire al pubblico quei brevi passaggi nei quali il dibattito degenera e si palesano comportamenti maleducati. Il sottinteso è che i punti di vista non coincidenti con l’egemonia culturale dominante appartengono alla sfera della cafoneria, della prevaricazione, dell’irrazionalità umorale. Certo, le risse verbali in tivù poi riproposte online dai giornali rispondono anche agli imperativi dell’audience e dei click che garantiscono entrate pubblicitarie; ma il fatto che essi riguardino soprattutto questioni politiche e della convivenza civile rivela che c’è anche una motivazione ideologica: screditare il pluralismo delle idee, disonorare il dibattito democratico, suggerire la virtuosità del pensiero unico. Questo totalitarismo strisciante è la vera minaccia alla libertà, altro che il ritorno del fascismo.
Foto Ansa
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