La differenza tra vedere e pensare. Il ritorno della politica e il ruolo dell’informazione

Di Piero Vietti
21 Luglio 2024
Il testo di Piero Vietti nel volume "Il futuro della democrazia italiana - Politica e società al tempo del governo Meloni" pubblicato dal Centro per lo studio della democrazia dell'Università Cattolica Polidemos
Giorgia Meloni
La premier Giorgia Meloni risponde alle domande dei giornalisti a margine del Consiglio europeo, lo scorso 28 giugno (foto Ansa)

Quello che segue è il testo dell’intervento di Piero Vietti in occasione del Summer Workshop organizzato da Polidemos, il Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, il 19 e 20 luglio 2023 a Venezia. L’intervento compare nel volume a cura di Damiano Palano “Il futuro della democrazia italiana – Politica e società al tempo del governo Meloni”, pubblicato da poco e scaricabile gratuitamente qui.

In questo intervento proverò a tratteggiare la cornice in cui si muovono media e comunicazione democratica oggi, a individuare le linee di tensione e a suggerire un possibile punto di sintesi. Lo farò da una posizione che ha molti limiti e pochi privilegi, quella del giornalista che osserva e vive queste dinamiche. Se devo individuare una linea di tensione, se non di frattura, che attraversa gli ultimi anni della storia politica e comunicativa, italiana e non solo, è quella che separa “mondo vissuto” e “mondo pensato”, il “vistocongliocchi” e il “sentitodire”, per usare le categorie di Stefano D’Arrigo, recentemente riutilizzate da Giovanni Orsina per analizzare la stagione del populismo.

Meloni libro PolidemosArriviamo da anni in cui i media cosiddetti mainstream hanno raccontato per molti versi un mondo a tratti inesistente, ideale, spesso imponendo una narrazione dall’alto e incanalando il dibattito quasi a senso unico su grandi temi come i diritti, l’ambiente, la salute, le migrazioni, l’identità. Hanno cioè presentato un “mondo pensato” in cui chi si discosta dalla verità proclamata non dovrebbe avere diritto di parola, o quasi, e deve essere delegittimato agli occhi di tutti. Così facendo, però, hanno perso il contatto con la realtà, e “non hanno visto arrivare” (una formula divenuta famosa con la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Partito democratico in Italia) molti fenomeni politici e sociali dirompenti: per citare i più emblematici, la vittoria di Donald Trump nel 2016, la Brexit e, più in piccolo, gli exploit elettorali del M5s.

“Fake news” e “post verità” sono state le parole d’ordine per raccontare lo sconquasso vissuto dal mondo dell’informazione negli ultimi anni. In alcuni casi, però, la lotta alla disinformazione è diventata disinformazione essa stessa, per cui tutto ciò che usciva dalla versione “ufficiale” era da considerare fake news. Un media deve dare la sua linea, dire come la pensa, e dare una visione “di parte”. Pure chi si propone ai lettori come mero raccontatore di “fatti” lo fa, anche solo scegliendo di quali argomenti parlare e a quali notizie dare la priorità. Il problema nasce quando un editore fa passare questo suo raccontare i fatti come “verità”.

Chi fa il giornalista sa che il concetto di verità è scivoloso, e un lettore dovrebbe sapere che se cerca la Verità non deve chiederla ai media. Su questo punto invece è stata fatta confusione, arrivando a definire “disinformazione” notizie sgradite o opinioni contrarie alle proprie: per ogni media, o quasi, gli altri media fanno disinformazione. C’è una narrazione “giusta” che va mantenuta a tutti i costi, chi non la segue deve essere delegittimato.

Questa delegittimazione ha fatto vittime illustri, prima tra tutti la politica. Le scelte fatte dalla politica durante i due anni di pandemia hanno mostrato chiaramente la sua crisi profonda. Dall’uso del Comitato tecnico scientifico fino alla scelta di Mario Draghi come presidente del Consiglio, ogni decisione presa dalla politica è stata fatta per continuare a proteggersi mandando avanti tecnocrati ed esperti. La politica non è stata uccisa da istituzioni sovranazionali, tecnocrati e esperti, si è suicidata. Aveva spazi e poteva difenderli, non lo ha fatto e si è anzi consapevolmente ritirata, salvo poi lamen- tarsi perché quegli spazi sono stati occupati da altri poteri. Tuttavia, nonostante un’offerta molto povera, restava una grande domanda di politica. E se c’è la domanda, l’offerta prima o poi si crea.

L’occasione per il ritorno della politica è stata la crisi ucraina. Di fronte all’aggressione russa si è tornato a parlare di valori, di equilibri geopolitici, di energia, di confini, di ambiente… Temi che singolarmente possono essere affrontati con un approccio tecnico, ma non nel loro insieme: per questo serve la politica.
Dopo anni di “mondo pensato” abbiamo visto il ritorno del “mondo vissuto”, con tutti i pericoli che questo comporta, dal cosiddetto “voto di pancia” al populismo passando per il complottismo.

Ma se gli “uomini qualunque” si aggrappano al “mondo vissuto” è perché non si fidano più di quelli che sono stati presentati come i sacerdoti del “mondo pensato”, siano essi scienziati, tecnici, burocrati o politici, dai quali si sentono sociologicamente e antropologicamente non soltanto distanti, ma anche respinti.

Questo perché, come detto, esiste uno iato tra il “vistocongliocchi” e il “sentitodire”, cioè tra l’esperienza diretta che si fa delle cose e ciò che si apprende perché comunicato da altri. Il populismo ha avuto fortuna perché una larga fetta della popolazione mondiale, sentendosi esclusa dalla globalizzazione, s’è ribellata a un’ideologia (il globalismo) che voleva convincerla che sarebbe stato vantaggioso per tutti uniformarsi a un unico stile di vita: più moderno, più tollerante, più fluido, più interconnesso. Un mondo “pensato” da una élite di esperti e competenti ha cercato di imporsi su un mondo “vissuto” da una maggioranza. L’Italia arriva da anni di politica debole, ora che è tornata è fisiologico che faccia fatica a essere forte. La politica però ha a che fare con persone che si aggrappano al “mondo vissuto”.

Il fossato tra il “vedere” e il “pensare” è stato scavato soprattutto dalla cultura progressista, per la quale chi “vede” e basta è “sbagliato”, da considerare meno. Si è così aperta una falla fra le prescrizioni morali dei media e la realtà quotidiana vissuta dai singoli – che ovviamente non ha valore generale –, una falla che non è da sottovalutare.

Una delle conseguenze più evidenti di questa frattura è l’estremismo, che è diventato la malattia del nostro opinionismo. Si prenda a titolo esemplificativo il tema dell’ambiente, dove le posizioni opposte ed estreme bloccano il dibattito: sul clima, le due fazioni a cui viene dato mediaticamente più spazio – gli apocalittici e gli indifferenti – dicono di fatto entrambe che non si può fare nulla, o perché è troppo tardi o perché non c’è nessun pericolo. Così facendo ognuna rafforza dal suo versante gli effetti della «tirannia dell’emergenza» e affida alle élite politiche o agli interessi costituiti il potere sottraendolo alla democrazia, cioè al dibattito informato dei cittadini. Lo sfruttamento politico-mediatico dell’ultima emergenza di turno conferma nell’opinione pubblica i suoi già non pochi pregiudizi, mentre ciò che serve è proprio provare ad abbatterli.

Come abbatterli? Come ridurre la frattura tra mondo vissuto e mondo pensato? Perché l’uomo dei nostri giorni non sia lasciato solo in questa verifica alla mercé dei tiranni del sentitodire (il cosiddetto “pensiero unico”) o dei saltimbanchi del vistocongliocchi (i complottisti), è necessario che egli viva in comunità in cui il suo giudizio sulle cose che vede e sente possa essere confrontato, corretto, indirizzato, così da essere libero e fecondo. Tenere insieme le cose e le persone è il primo segno che non ci siamo arresi a vivere a nostra insaputa.

Come si tengono insieme? È ancora Giovanni Orsina a ricordare che, come diceva Pier Paolo Pasolini, l’Italia è un paese di piccole patrie, di tribù, comunità. Un paese che non è fatto per la disintermediazione, in cui il rapporto del singolo con lo stato non è verticale. Ecco perché è fondamentale riprendere il ruolo dei corpi intermedi. Scrive il sociologo Pier Paolo Bellini: «Oggi, se la nostra vita quotidiana è inevitabilmente ricca di esperienze “intermedie” (gli amici, le associazioni, le relazioni affettive, la famiglia, ecc.), risulta però sempre più complicato capire o definire che rilevanza esse possano o debbano avere a livello interpersonale, sociale, civile e anche politico». Alexis de Tocqueville diceva che nei paesi democratici «la scienza dell’associarsi è madre di tutti gli altri progressi», e il filosofo francese Emmanuel Mounier diceva che «l’uomo è solido solo sotto forma di leghe». Le «comunità di vita», come vengono definite da Peter Ludwig Berger e Thomas Luckmann, sono il luogo preposto alla creazione del “senso” delle cose: sono queste comunità, infatti, che assicurano quello spazio potenzialmente “libero e fecondo” dell’attività dell’individuo, uno spazio in cui le informazioni “ufficiali”, “indiscutibili”, vengono invece «selezionate, rigettate e adattate alle circostanze individuali».

Secondo il filosofo e matematico Nicholas Nassim Taleb, la modernità ci ha inculcato «l’idea che esistano solo due entità: l’individuo e la collettività universale. In questo senso, quando ti metti in gioco lo fai solo per te, per l’entità elementare. La realtà, però, è che ciascuno di noi si mette in gioco come parte di un gruppo più ampio: una famiglia, una comunità, una tribù, una confraternita. Più ampio, ma assolutamente non universale». La società civile «matura nelle città, nei quartieri», dice il politologo Lorenzo Castellani. «Se a livello nazionale e sovranazionale ormai i giochi sono fatti, è ancora possibile ridare importanza alla dimensione locale». È l’idea sempre attuale della sussidiarietà.

Infine, non bisogna avere paura del conflitto: la politica serve a far convivere in modo civile idee, modi di vita e preferenze diverse. L’illusione tecnocratica di trovare una soluzione che neutralizzi ogni conflitto porta all’annullamento della politica. Che dunque non deve avere paura di valorizzare questi “luoghi di senso”, così come i media non devono dimenticarsi della loro esistenza, preoccupandosi meno di dare prescrizioni morali, e provare a diventare anche loro una sorta di corpo intermedio, offrendo criteri per giudicare la realtà quotidiana. Come detto da Vittorio Emanuele Parsi, «non c’è bisogno di chi ti spiega le cose, ma di chi aiuti a rimetterti in sintonia con le cose».

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