
Le Pmi italiane “perdono” 269 ore l’anno per parlare col Fisco. Sessanta in più di quelle tedesche

Le imprese italiane impiegano ogni anno «269 ore per assolvere gli obblighi fiscali contro le 207 della Germania e 15 adempimenti l’anno contro 9» di Berlino. Ad ammetterlo è stata Fabrizia Lapecorella, direttore generale del dipartimento Finanze del Tesoro, ieri in audizione alla Commissione finanze del Senato per discutere del rapporto tra contribuenti e fisco. Un grave squilibrio competitivo che significa più ore spese dagli imprenditori sulle scrivanie, tra scartoffie e cartelle, ma meno da dedicare alle produzione e all’innovazione in azienda o alla ricerca di nuovi mercati nel mondo. Per capirci: 269 ore sono 33 giornate lavorative di 8 ore l’una ogni anno, cioè quasi due mesi di tempo.
I PIÙ GRAVATI DAL FISCO SIAMO NOI. Fa un certo effetto sentire un alto dirigente dell’amministrazione pubblica ammettere che, sì, l’Italia è tra i grandi paesi europei quello che «pone sulle proprie imprese il carico maggiore in termini di compliance», termine tecnico con cui il complesso sistema fiscale italiano indica l’adempimento spontaneo dell’obbligazione tributaria da parte delle imprese. Senza contare che, al netto della “spontaneità” e dei buoni propositi dei nostri imprenditori verso l’Agenzia delle entrate, i controlli dello Stato attraverso la miriade dei suoi enti pubblici, dall’Inps ai Vigili del Fuoco, sono quasi cento: 97 controlli l’anno come ricordato di recente dalla Cgia di Mestre. Un mole di carta tale da scoraggiare anche il più avventuroso tra i capitani d’impresa.
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