
“Più eutanasia per tutti”. Se il Sole 24 Ore perde lucidità

Articolo tratto dall’Osservatore romano – «L’eutanasia in senso proprio, quella dove il medico somministra direttamente un farmaco letale, è alla portata di culture morali coraggiose e individualiste; non è per paesi imbrigliati da un’etica comunitaria e ipocrita. Come l’Italia». Gilberto Corbellini in un articolo uscito il 14 gennaio sull’inserto «Domenica» de «Il Sole 24 ore» critica duramente la recente legge sulle disposizioni anticipate di trattamento definita «il minimo sindacale» in tema di diritti e autodeterminazione. Evidentemente terrorizzato dalla prospettiva di terminare i propri giorni in quello che definisce «un disturbo protratto della coscienza» (come lo stato vegetativo) Corbellini perde da subito la lucidità e si lascia sfuggire alcune affermazioni gravi e sconcertanti sulle quali vale la pena di ritornare.
I circa tremila pazienti che in Italia si trovano in tale condizione rappresentano un costo notevole «a carico del servizio sanitario e dei parenti» e, si cita testualmente, «anche un business per numerose strutture a gestione religiosa». Devo fermarmi un attimo durante la lettura, riprendere fiato per continuare ma purtroppo non è finita.
Nella riga successiva Corbellini afferma che «ci vuole una dose non comune di cattiveria e di egoismo, che accomuna quasi sempre religiosi e familiari, per costringere degli esseri umani a entrare e rimanere in una condizione mentale grigia e sconosciuta, piuttosto che lasciarli decidere in modo autonomo». Tali esternazioni non riguardano un modo di pensare, l’adesione a una teoria etica diversa dalla mia o una diversa visione dell’uomo, tutti fatti rispettabilissimi e con i quali è anche costruttivo confrontarsi.
Tali esternazioni colpiscono perché mostrano a quale punto si può arrivare quando, persa la razionalità, si scade nel giudizio e nell’attacco ideologico. Sarebbe interessante che anziché fare affermazioni banali e generiche l’autore ci dicesse dove e quando ha visto realizzarsi questa diabolica alleanza tra «religiosi e familiari» che riuscirebbe non solo a mantenere degli esseri umani in una condizione di limbo mentale ma addirittura li costringerebbe «a entrare» in tale stato. Sarebbe interessante che Corbellini, accecato dall’ira e dall’incubo, come lui stesso lo definisce, di condividere una sorte così misera ai suoi occhi, ci dicesse esattamente quali «strutture a gestione religiosa» avrebbero deciso di “fare business” alle spalle di tali malati e delle loro famiglie. La gravità di tali affermazioni si commenta da sola ma il fatto che siano generiche le rende in un certo senso ancora più odiose.
Sarebbe infine necessario che il professor Corbellini, posati per un momento i libri che devono avergli così intensamente confuso i pensieri, si prendesse un po’ di tempo per fare visita ad alcuni di questi malati, ai loro familiari e ai tanti, religiosi e laici, che li curano ogni giorno. Da torinese potrei suggerire il Cottolengo, comodo anche arrivando in treno a Torino. Lo dice lui stesso: gli studi di Adrian Owen e di molti colleghi neurologi ci lasciano intendere che si conosce ancora pochissimo di ciò che realmente sente un malato in stato di minima coscienza. Aprendo però le porte di una stanza del Cottolengo o di altre strutture simili, religiose o laiche, Corbellini potrà forse recuperare un po’ della sua lucidità perduta e accorgersi che non c’è nessun business, nessun egoismo, nessuna cattiveria, nessuna alleanza tra “religiosi e familiari”. Solamente persone malate che soffrono, altre che le aiutano e che lavorano per loro con professionalità e attenzione, familiari e amici che colgono ogni momento per far sentire la loro vicinanza.
Sono cose che fanno passare la paura e, magari, fanno anche venire voglia di chiedere almeno scusa.
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