Pietà per Davide Garufi

Di Caterina Giojelli
25 Marzo 2025
Si indaga ancora sui motivi che hanno portato al suicidio il tiktoker. Non sapremo mai se, nei suoi tanti panni, chiedeva di essere accettato o aiutato, ma è già diventato una bandierina del circo mediatico. Non c’è spazio per pudore e penombra nella società dell'esposizione
Davide Garufi, tiktoker 21 enne che si è tolto la vita a Sesto San Giovanni in uno dei suoi video (Milano)
Davide Garufi, tiktoker 21 enne che si è tolto la vita a Sesto San Giovanni in uno dei suoi video (Milano)

Davide e Alexandra Garufi erano la stessa persona: un ragazzo di 21 anni, identificato dai media come “tiktoker”, che si è tolto la vita. Un altro caso di cronaca già risolto sui giornali prima ancora che si conoscano i fatti. Il movente? L’odio transfobico. I colpevoli? Gli hater, «la cultura che esprimono i movimenti anti-scelta come Pro Vita e Family Day», «la destra intollerante che nega l’esistenza di queste persone, umiliandole fino a costringerle a trovare la morte», denuncia Daniele Durante, delegato ai Diritti della segreteria di Sinistra Italiana Milano, in una dichiarazione subito ripresa dai media.

La Procura di Monza ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio. Nessun rapporto, al momento della notizia, spiega chi o cosa abbia portato il ragazzo a premere il grilletto della pistola del padre, guardia giurata, lo scorso mercoledì nella sua casa di Sesto San Giovanni. Ma per i media e gli attivisti non ci sono dubbi: “Tiktoker Alexandra Garufi si toglie la vita dopo gli insulti per la transizione di genere”, titola La Stampa, che ospita anche la nota di Sinistra Italiana su «un ragazzo che ha avuto il coraggio di fare coming out come donna transgender su TikTok, chiedendo di essere chiamatə Alexandra e annunciando con fierezza l’inizio della terapia ormonale». Il movente sarebbe confermato dalle parole di una vicina di casa: soffriva per gli insulti omofobi online e la famiglia non aveva “del tutto accettato” la sua transizione.

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Davide Garufi non era solo Alexandra

Eppure, basta poco per scoprire che Davide non era solo Alexandra. Aveva vestito tanti panni, in quel bulimico teatro delle apparenze e del blaterare che è TikTok: gamer, emo, etero, transgender Alexandra, poi di nuovo Davide non binario, poi Alex, capelli lunghi, corti, azzurri, rossetto, piercing, ora nerd ora “baddie” (cattiva ragazza). Aderiva come un magnete alle liturgie social, lanciava dirette dalla cameretta per rispondere «alle vostre domande», provava snack, faceva maschere per il viso, trasmetteva perfino dall’ospedale per aggiornare su una sua operazione, descrivendo dettagli su cateteri e anestesie. Pregava i follower di «diffondere il più possibile questo video» perché voleva riposare. Si prendeva in giro e si prendeva sul serio, innescava risse – costruite o spontanee – con altri tiktoker, raccoglieva seguito e insulti. Aveva anche lui dei bersagli, provocava, cercava di fare “hype”, veniva accusato ora di “scammare” i suoi fan, ora di aver capito tutto.

«I social fanno male, sono diventati un posto brutto, sei anni fa non trovavi un solo insulto, ora qualsiasi cosa tu faccia vieni giudicato, preso in giro, perché?», dice in una delle sue ultime storie, che i tiktoker ora condividono come suo testamento, facendo muro contro innominati carnefici. Alcuni si filmano in lacrime con musica struggente e scritta RIP, altri scuotono la testa alludendo alla fragilità del ragazzo. «Non stava bene», dicono, «lo sapevano in tanti». Altri storpiano il suo nome, scimmiottando certi streamer di successo («Morto tale Andrea Garofalo […] Garoffi o come cazzo si chiamava», commenta Blur, il ras di Twitch). Molti si danno appuntamento «al prossimo video». Davide faceva quello che continuano a fare molti coetanei anche parlando della sua morte: condividere per alzare lo share, dove tutto è reazione, insulto o inchino.

Non è difficile trovare su altri social immagini di Davide bambino, ancora piccolo e senza posture, che sorride con la sua famiglia, che scrive di voler bene alla mamma o che sente la mancanza della sorella, scomparsa molti anni fa.

Davide Garufi, Orlando, Seid e i ragazzi ridotti a bandierine

Non sapremo mai se, nei suoi tanti panni, Davide chiedeva di essere accettato o, più semplicemente, di essere aiutato. Nessuno si è fatto domande vere sulla sua sorte: era in transizione, quindi non può che essersi ucciso per colpa del bullismo transfobico. Questa è la sentenza. Il procuratore Claudio Gittardi ha specificato ieri che le indagini relative alle responsabilità di terzi non sono collegate ai messaggi apparsi sui social media. Qualcuno scrive che il ragazzo aveva un precedente di abuso di farmaci, che il padre è stato denunciato per incauta custodia dell’arma da fuoco, che “non risulta l’avvio della transizione di genere”. Ma in nome di uno strano principio di responsabilità collettiva, gogna chiama gogna di segno contrario, e un ragazzo che si è tragicamente tolto la vita diventa, in poche ore, una bandierina da issare sul circo mediatico.

Lo stesso è successo con Orlando Merenda, il cui suicidio venne attribuito all’omofobia, e con Seid Visin, il cui gesto fu spiegato con il razzismo: casi in cui il movente, smentito dalle indagini, venne rapidamente abbandonato dai giornali, che allora inseguivano il ddl Zan o lo ius soli. Storie che avrebbero dovuto insegnarci a trattare i ragazzi con cura, non come cose.

La dura legge di essere “se stessi”. Senza alcun pudore

Come potevamo aiutare Davide? In un mondo in cui i ragazzi vivono di condivisione, ogni evento si trasforma in reazione, insulto o inchino, ma la risposta è sempre la stessa: trovare un bersaglio da abbattere. Da Durante ai Sentinelli fino a Scalfarotto, il dito è stato puntato contro «i movimenti antiscelta», «la destra», «l’internazionale sovranista da Trump a Orban, passando per l’Italia di Meloni e Salvini», colpevoli di «cancellare corpi, persone, vite». «Alex non si è toltə la vita. È statə uccisə dal vostro odio», ha dichiarato Roberta Parigiani, vicepresidente del Movimento Identità Trans. Fatto, scandalo, reazione, colpa: senza pietà resta solo il circo. Eppure, negli ultimi anni, non si è fatto altro che parlare di educazione: educazione sessuale, all’affettività, al rispetto, al diritto di essere “se stessi”, anzi, il dovere di essere se stessi. E cosa ha prodotto tutto questo?

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Diversi anni fa, Susanna Tamaro scriveva con coraggio: «Se ci guardiamo intorno, non possiamo non notare che il degrado relazionale è purtroppo molto diffuso tra gli adolescenti. Tolta l’educazione della persona nella sua totalità, emerge ciò che sta appena sotto, vale a dire i modelli etologici delle grandi scimmie: il maschio dominante, le femmine ai suoi piedi, e gli esemplari non dominanti sottomessi alle prepotenze del branco». E ancora, intervistata da Tempi sull’educazione soppiantata dall’ossessione per corsi di educazione sessuale che hanno alimentato la perdita del “pudore” per sé e per gli altri, avvertiva: «Togliere questa penombra, eliminare questa segretezza […] lascia nudi, letteralmente nudi. E indifesi», «chi è debole è a quel punto utilizzabile, manipolabile, classificabile. È ciò che vediamo accadere oggi con le persone ridotte a “cose”».

Senza pietà crescere è un massacro

Non c’è spazio per la penombra tra gli utenti dei social network. Penombra è anonimato, pudore una parolaccia in quell’oceano di condivisione per ragazzi che si confessano ogni ora del giorno e della notte come se avessero una pistola puntata alla schiena, quando non la dirigono verso altri o se stessi. Liberarsi del pudore come di un ferrovecchio è tuttavia un «tragico errore»: «Senza il rispetto del corpo – scriveva Claudio Risè dopo il suicidio di Tiziana Cantone che si è tolta la vita in seguito alla diffusione in rete di filmati hard – , diventiamo solo testa: miti, slogan, ideologie. Privi di equilibrio e di un territorio fisico e simbolico, personale, nel quale l’altro possa entrare solo se ammesso e profondamente desiderato. Soprattutto mai invitato ad entrare e rapinarci, sperando nella sua attenzione e benevolenza».

Senza corpo non c’è pudore e senza pudore non c’è il senso di sé e quindi neppure dell’altro. Si è separati dalla propria fonte di vita, dal proprio territorio affettivo e psicologico, disorientati, «è un massacro», come dimostrano i commenti degli hater e dei cacciatori di hater. È un decennio che ci giriamo intorno. Sui social non c’è penombra, tutto è esposizione. Non c’è pudore, tutto è condivisione. Non c’è educazione, tutto è rivendicazione. Ma senza educazione non c’è umanità, e senza umanità non resta che la fiera delle identità e delle vittime, dove ogni ragazzo è preda e ogni tragedia un pretesto per impiccare qualcuno. Quel che serve, oggi come allora, è una grande opera di alfabetizzazione dell’umano, a partire dagli adulti. Se i ragazzi si guardano e giudicano spietati è perché nessuno ha mostrato o insegnato loro la pietà.

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