
Pesaro, Pci e Usa
Né troppo bella, né troppo brutta, Pesaro sonnecchia indisturbata in riva all’Adriatico, tra le braccia dell’Appennino marchigiano. È un posticino tranquillo, Pesaro. Prende le cose come stanno. Se da cinquant’anni si vota a sinistra, anche nel 2004 si vota a sinistra. E fa niente se il mite soviet ha deciso di dare il peggio di sé proprio qui, meglio non fare troppo baccano: per chi, sotto sotto, sogna l’America, in certi casi la pace vale molto più della libertà.
Il komintern giudiziario e il mobiliere
Così, a Pesaro, dove praticamente tutte le private famiglie conducono privatissime attività, capita che nessuno trovi da ridire se la Provincia, per vincere l’appalto della costruzione del nuovo centro servizi per l’impiego, decide di esercitare il suo diritto di prelazione sullo stabile in questione: perché concedere al privato cittadino (che per antonomasia comunistica è ladro della cosa pubblica) di gareggiare e di essere giudicato dal pubblico, quando la Provincia statale, che nessuno può giudicare, può tranquillamente metterci sopra le mani?
E mentre Ilja Gardi s’è trasferito a Roma con Guido Lucarelli per tentare di realizzare quel centro di cura della talassemia che per puro calcolo politico la Regione Marche del diessino Vito D’Ambrosio non gli ha lasciato fare all’ospedale San Salvatore (cfr Tempi nr. 2, 2003), a Pesaro e in provincia, partiti, magistrati e burocrazia proseguono nella loro opera di radicamento nel potere e, necessariamente, di allontanamento dai problemi reali della popolazione, perseguitando ora questo, ora quell’altro cittadino. E sono storie da incubo. Un esempio?
Considerate lo scherzetto che hanno fatto a un lombardo trapiantato in un comune dell’entroterra di Fano («Niente nomi per favore, dobbiamo già ringraziare se stiamo ancora lavorando»). Con 150 dipendenti, il nostro imprenditore produce mobili, è un fornitore di grandi aziende e ha clienti del calibro di Ikea. Di recente installa una macchina per generare energia dalla combustione dei truccioli prodotti durante la lavorazione del legno. Emissioni a norma, gli garantisce l’azienda installatrice, ma un giudice scopre che non è così e chiude la fabbrica. Una brutta botta, si capisce, per l’imprenditore e i suoi operai. Il costruttore di mobili risolve comunque il problema e ottiene la riapertura della sua impresa. Nel frattempo, però, il giudice decide che anche l’impianto di verniciatura è fuori norma e non può essere riaperto. Sempre più sconcertato l’imprenditore cerca una via d’uscita e ipotizza un investimento correttivo da 100mila euro. A questo punto il giudice dice di non potersi pronunciare sull’efficacia della soluzione proposta e rimanda la sua vittima all’Arpam (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale delle Marche). All’Arpam, però, nessuno è disposto ad assumersi la responsabilità di firmare un parere su quei 100mila euro d’invesimento. Disperato, il nostro imprenditore, torna dal giudice. Il quale gli viene incontro volentieri: «Non creda di spaventarmi dicendo che rischia di lasciare senza lavoro 150 persone: la legge stabilisce dei parametri che il suo impianto di verniciatura non rispetta. E io non glielo faccio riaprire». E così, oggi, dalle parti di Fano, c’è un imprenditore lombardo che non sa come spendere i suoi 100mila euro e che, per non perdere gli ordini, è costretto a esternalizzare la verniciatura dei suoi mobili.
Di come il diessino sociale finI’ trombato dal soviet statale
È un posticino che non ama far parlare di sé, Pesaro, dove non fa specie nemmeno che alle ultime amministrative i Ds abbiano deciso bellamente di riconvertirsi in Pci, trombando per intero la loro ala sociale, quell’ala riformista fatta dei candidati provenienti dalla società civile che cinque anni fa aveva fatto faville in città e stava conquistando un peso pericoloso per la segreteria del partito.
Tra i bocciati dal soviet c’è Silvio Cattarina, uno che le rivoluzioni non le ha mai temute e che del cambiamento dell’uomo ha fatto il filo rosso della sua vita. «Fin da giovane sono sempre stato sensibile alla sofferenza umana, in particolare ai problemi legati alla tossicodipendenza, perciò ho cominciato molto presto a lavorare nel sociale. Poi, da dentro l’ambiente, sono stato conquistato dagli operatori, da quelli che decidevano di dare la vita per aiutare gli altri. E così, nel 1990, anche per poter dare una formazione agli operatori, ho deciso di fondare la cooperativa “L’imprevisto” per l’accoglienza dei minori in situazioni difficili. Io stesso, vincendo l’orgoglio di chi ha ormai una certa età e quindi una certa esperienza, mi sono rimesso ad imparare, mi sono fatto educare. Col tempo poi è cresciuto il mio interesse per gli “altri” là fuori, e cinque anni fa è iniziata la mia avventura in politica. Oggi che sono stato bocciato, infine, ho capito che devo ricominciare da me». Mentre finisce di sintetizzare la sua storia, Silvio Cattarina lascia che un sorriso amaro, eppure ironico, gli attraversi il volto segnato dai quattordici anni trascorsi a far compagnia ai suoi ragazzi. In fondo, in barba a tutta la politica del mondo, è grazie al suo impegno se i disgraziati della comunità “L’imprevisto”, persino loro, possono sperare di riavere una vita “normale”. Con tre comunità, due case per il reinserimento e un laboratorio artigianale, “L’imprevisto” oggi è considerata una delle comunità terapeutiche educative più serie d’Italia. A Pesaro i tribunali di tutto il paese mandano i casi più difficili, perché la maggior parte dei 500 ragazzi che hanno trascorso del tempo nella comunità di Cattarina (circa 200 di loro ci sono rimasti almeno un anno e mezzo, ma gli omicidi rimangono fino a tre anni) oggi «stanno in piedi da soli, riescono a trovare lavori stabili, a metter su famiglia». Il principio educativo sul quale Cattarina ha fondato la cooperativa “funziona” perché rivoluziona la tecnica psicologica classica in voga nei servizi sociali, che concepiscono il reinserimento delle persone come una sorta di automatismo: «Per cominciare il loro cammino di riscossa, innanzitutto è importante che i ragazzi capiscano quello che hanno fatto, il motivo per cui sono costretti a restare con noi, e che se ne assumano la responsabilità. La “riparazione” dell’umano, poi, avviene all’interno di un lavoro che gira intorno al destino di ognuno di loro. Se i ragazzi non percepissero un interesse vero nei loro confronti, perché dovrebbero voler affrontare i loro problemi con noi? Quando l’uomo è “nudo” e si vergogna di sé, bisogna che abbia la possibilità di desiderare tanto, di avere un’aspettativa alta nei suoi stessi confronti affinché torni ad appassionarsi alla propria vita. Per questo io non credo di esagerare quando leggo loro l’Annuncio a Maria di Paul Claudel: anche loro se lo meritano».
L’America di Berloni
Intanto Pesaro continua a sognare l’America. E intorno a storie come quella di Antonio Berloni si sono sviluppati autentici distretti, dove l’America talvolta sembra davvero dietro l’angolo.
Non sarà la multinazionale delle favole, Berloni, ma attualmente è un gruppo con 850 dipendenti che fattura qualche centinaio di milioni di euro: non male, visto che il signor Antonio, nel 1960, ha cominciato a produrre cucine nel cortile di casa sua, a Sant’Agata Feltria. Antonio Berloni, classe 1936, veste alla buona e parla come gli viene. Se gli chiedete come si godrà le ferie quest’estate, vi risponderà che «in vacanza ci manda la famiglia. Io c’ho la trebbiatura da fare». Quando racconta del suo lavoro, le sue mani abituate alla fatica si stringono come ad afferrare chissà quale attrezzo del mestiere. A incontrarlo per strada, decisamente non si direbbe che controlla gioiellini come Indel, un’azienda del pesarese che produce tra l’altro refrigeratori per mezzi di trasporto con cui serve il 60% dei cantieri nautici americani. Eppure Berloni, nella sua sorprendente semplicità, ha le idee molto limpide: «Per noi che i primi capannoni li abbiamo tirati su lavorando il sabato e la domenica è sempre stato chiaro: per avere il benessere, tocca lavorare e fare sempre cose nuove. Fra un anno scappa fuori qualcuno che fa il tuo stesso prodotto e ti ruba il mercato, e allora tu fra un anno devi aver inventato qualcosa di nuovo. Ecco in cosa consiste la crisi di cui si parla tanto oggi: vogliamo il benessere, ma nel periodo dei tartufi e dei porcini il medico mi lascia a casa in malattia 25 operai ogni giorno. Si dice che si lavora troppo e si guadagna troppo poco, ma oggi se fai sollevare a qualcuno un peso superiore a 32 kg sei fuori norma, mentre io a quattordici anni trasportavo da solo sacchi da un quintale fino in solaio. Non voglio dire che bisogna ammazzare il medico che mette gli operai in malattia per una sbucciatura al dito, voglio dire piuttosto che c’è da recuperare un concetto molto semplice: gratis non si ottiene nulla. Non ci si può lamentare che manca il benessere se poi non si ha voglia di lavorare». Berloni racconta, e intanto si appassiona, si scalda. Non è difficile immaginarlo mentre, dopo l’incendio che l’anno scorso gli ha divorato 20mila metri quadrati del suo stabilimento principale, allestisce un capannone di fortuna insieme ai suoi operai e in due giorni riavvia la produzione delle cucine. Ci vuole un attimo di respiro perché recuperi una certa pacatezza, e in quell’attimo il signor Berloni sembra ripescare anche una consapevolezza faticosa: «Comunque è colpa nostra. Noi, che abbiamo dedicato tutta la vita al lavoro, non abbiamo fatto niente per evitare che si diffondesse questo modo di pensare. Abbiamo badato a correre, e non ci siamo accorti che la strada sbandava di qua e di là… Ad un certo punto abbiamo creduto che il lavoro degli uomini non fosse più necessario. Ma le macchine le guidano gli uomini, e gli uomini bisogna farli ragionare bene. Per questo però avremmo dovuto discuterci noi, incontrarli, farci la guerra».
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