
Persone fragili. Occorre ripartire da “relazione” e “cura”

Domenica 16 ottobre Ferruccio de Bortoli, in un editoriale sul Corriere della Sera, affronta il tema delle fragilità sottolineando che «il grado di civiltà è tutto nella capacità di preservare la dignità di un anziano fragile o di un malato inguaribile. Si è cittadini sempre, altrimenti si è scarti».
Il monito è rivolto al nuovo governo al quale l’editorialista chiede che si dia seguito e sostanza allo schema di legge delega approvato, il 10 ottobre, dall’ultimo Consiglio dei ministri del governo Draghi, in materia di assistenza alle persone fragili e non autosufficienti.
Siamo tutti fragili
Sono sicuramente pregevoli le parole di de Bortoli, ma serve sottolineare che il tema, ancora prima che politico, è culturale, umano, laico e religioso. La polis ha l’obbligo di intervenire laddove una pluralità di soggetti (privati e pubblici), da decenni, lavorano sollevando costantemente questa urgenza, che al pari del tema energetico, diverrà il dominus dei prossimi trent’anni.
I soggetti fragili, è bene specificarlo, non sono altro da noi. La fragilità non avrà mai la declinazione di una categoria sociale, ma sempre il volto di una persona. Fragili siamo tutti noi che conosciamo la nostra e tentiamo di trascenderla continuamente, quella di coloro che in un nucleo protetto non si ricordano il loro nome, le persone in condizione di stato vegetativo che voce non hanno, gli anziani non autosufficienti, coloro che hanno solo bisogno di compagnia per non perdersi nella solitudine, gli operatori che ascoltano tutti, i dirigenti che devono fare di conto, i bambini che tutto devono apprendere, la mia fragilità, quella di chi sta leggendo questo articolo, quella del mondo intero. Solo la presunzione potrebbe farci cadere nell’errore di ritenere di esserne esenti; siamo solo dei presunti sani che a tentoni o con balda fierezza ci accostiamo alla vita, alla nostra vita e a quella degli altri, con il desiderio di condividere un pezzo di strada, un lembo di terra, una lacrima senza vergogna. Stare assieme, costruire, condividere, rappresentano gli antidoti per vincere la battaglia dell’umano.
La relazione
Quando si affrontano i temi della fragilità non è possibile esimersi dall’enunciare altri due capisaldi: relazione e cura.
La prima costituisce il presupposto essenziale di ogni ragionamento. Relazione come ascolto, capacità di entrare in connessione con l’altro, con la diversità unica di ogni soggetto irripetibile e singolare. Relazione come incontro entro il quale ognuno mette in gioco sé stesso, l’essenza della propria vita ed il rapporto con l’assoluto.
Relazionarsi non è un esercizio di stile, una prassi retorica, una modalità moderna per organizzare rapporti di scambio commerciale, bensì responsabilità e condivisione con l’altro, con il volto dell’altro attraverso il quale l’umanità di ciascuno si rivela e si palesa. La relazione è un incontro, il mezzo di comunicazione primo, anche quando non v’è possibilità di dialogo. Ciò che determina e permette questa possibilità di fratellanza è la prossimità, l’opportunità di consentire allo sguardo di farsi complice.
La cura
Le persone cambiano e si trasformano, proprio in virtù di quella domanda che sorge al cospetto dell’altro, nella relazione che con l’altro accettiamo di stabilire nella modalità della “cura” e della reciprocità. E proprio il termine cura rappresenta l’altro caposaldo inviolabile.
Secondo i dizionari classici di etimologia, nella sua forma più antica, “cura” in latino si scriveva coera ed era usata in un contesto di relazioni di amore e di amicizia. Esprimeva l’atteggiamento di premura, vigilanza, preoccupazione e inquietudine nei confronti di una persona amata. Ancora una volta, ritorna la prossimità. Non ci si prende cura per interposta persona, per corrispondenza o tramite l’ausilio di uno strumento sanitario. La cura chiede una vicinanza ed un rapporto con l’altro. Essa reclama premura, attenzione, delicatezza.
La sofferenza
La medicina, come scienza ed insieme, come arte del curare, con il tempo, potrà anche arrivare a scoprire terapie efficaci per ogni patologia, tuttavia, questo è solo un settore. Il terreno della sofferenza umana è molto più vasto, molto più vario e pluridimensionale. L’uomo soffre in modi diversi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle sue più avanzate specializzazioni. La sofferenza è qualcosa di ancora più ampio della malattia, di più complesso ed insieme ancor più profondamente radicato nell’umanità stessa.
Curare vuole dire prendersi cura della persona, anche quando essa non può più guarire, nella totalità delle sue espressioni, fisiche, morali e spirituali.
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