
Perché oggi conviene essere molto popolari

Articolo tratto dal numero di Tempi di marzo 2019.
«Il sistema bancario è ormai in mani forestiere. La gran parte delle nostre banche sono italiane solo perché hanno sede legale in Italia. Sono controllate dai fondi speculativi esteri statunitensi o europei oppure da banche estere. Fiumi di utili vanno ad arricchire altri paesi ed economie. Adesso, cominciano ad affacciarsi (e hanno già fatto spesa bancaria) gli oligarchi russi e società con sede alle Cayman, alle Isole Vergini, in Lussemburgo. Siamo una terra di conquista della finanza internazionale, di cui saremo presto una colonia a tutti gli effetti». Se c’è una virtù che è unanimemente riconosciuta a Corrado Sforza Fogliani è di non parlare con lingua biforcuta e di essere un tipo pugnace che va dritto al punto. Presidente di Assopopolari, l’associazione delle banche popolari italiane, già presidente di Confedilizia (di cui oggi guida il centro studi), è un liberale a tutto tondo. Un liberale “einaudiano” perché di Luigi Einaudi è ancora oggi massimo esperto e ammiratore. «Avevo ventuno anni – racconta a Tempi – e avevo scritto la recensione di un suo volume delle Cronache economiche e politiche di un trentennio. Mi contattò e mi chiese di andarlo a trovare. Chiacchierammo e mi conquistò. Congedandomi mi fornì una elenco di libri lungo così. “Croce: leggere tutto. Toqueville: leggere tutto. E mi raccomando – mi disse –, ogni giorno comperi i giornali, in particolare l’Economist, di cui deve leggere anche le pagine di pubblicità”».
Avvocato, consigliere dell’Associazione bancaria italiana (Abi) e vicepresidente dal 2010 al 2012, Sforza Fogliani è uomo che mastica di economia, che conosce il potere e il mondo, ma è anche un uomo molto radicato nel territorio e nella difesa del patrimonio e della tradizione che da quel territorio fioriscono (non si contano i suoi interventi a favore della natìa Piacenza, di cui è stato per 25 anni presidente della Banca). Insomma, un uomo dagli interessi vasti e poliedrici. Ogni anno organizza a Piacenza il “Festival della Cultura della Libertà” in cui chiama a confrontarsi gli spiriti liberali italiani per una due giorni intensa di dibattiti e lezioni. Quest’anno nei convegni è risuonata più volte la parola «sussidiarietà», che è per Sforza Fogliani il metodo più corretto per valorizzare le energie presenti nel paese, troppo spesso soffocate da uno Stato invadente ed elefantiaco. È per questo che Sforza Fogliani è sempre in prima linea nel difendere tutte quelle iniziative che, “partendo dal basso”, producono socialità e benessere: le banche del territorio, ad esempio, ma anche le piccole e medie imprese, i corpi intermedi, le scuole paritarie, le famiglie.
Tutte cose del passato, “medioevali”, le direbbe qualcuno.
Ma io adoro il Medioevo, il Medioevo è il futuro. È un’età storica che va rivalutata non solo per rendergli giustizia, che già sarebbe un grande compito visto quanto è bistrattata oggi, quanto perché in quell’epoca ci fu un pluralismo degli ordinamenti giuridici che farebbe tanto bene al nostro tempo. Quello è il futuro. Lo Stato cinquecentesco, caratterizzato dalla plenitudo potestatis, s’è gravato di tali e tanti compiti che non riesce più ad assolvere alle funzioni che si prefissa. Oggi sembra impossibile che possa esistere una società che non è organizzata in uno Stato centrale, ma ci sono stati periodi della storia che ne hanno fatto a meno ed esistono esempi di questo anche oggi, comunità regolate da contratti di diritto privato.
A lei l’invadenza statale proprio non va a genio.
Scusi, ma a lei sì? Perché dovrebbe piacermi uno Stato per cui devo lavorare fino al 21 giugno per pagare le tasse? Altro che decima medioevale!
Introducendo i lavori al Festival, lei ha affermato che, per spiegare il mondo, oggi esistono categorie politiche diverse da quelle di destra e sinistra e ha parlato di «tutelati e non tutelati, assistiti e non assistiti». Che cosa intendeva?
Nessuno oggi è totalmente non tutelato, però esistono diversi gradi di “tutele”. C’è chi ha il posto di lavoro assicurato qualunque cosa faccia o accada e può guardare al futuro senza alcuna incertezza. Col passare degli anni, a causa dell’eccessivo allargarsi dello Stato, queste persone sono diventate maggioranza nel paese. Questo comporta che ogni cambiamento è guardato con sospetto, in quanto costoro temono di perdere i propri privilegi. Ma se tutto rimane fermo, non si riescono mai a cambiare anche le cose che non funzionano. I tutelati non ce lo permettono.
Oggi il dibattito pubblico è stretto nel binomio “tecnocrazia contro populismo”, “globalismo contro sovranismo”, “élite contro popolo”. Ora, al di là delle definizioni grossolane, è chiaro che tra questi due estremi esiste una via intermedia, che sappia cogliere dal primo i vantaggi della modernità e dal secondo quelli della tradizione.
Condivido. Credo anche io che non si possa sposare in toto una posizione piuttosto che l’altra e che si debba prendere del buono dall’una e dall’altra. Indubbiamente la globalizzazione ha portato risultati straordinari, ma, nello stesso tempo, ha prodotto risvolti negativi. Vede, c’è una cosa che hanno capito in pochi: nella globalizazzione si è forti solo se si ha una forte identità, altrimenti si rischia di farsi trascinare, appiattendo le differenze, omologandosi tutti a un unico stile di vita e pensiero. Il sovranismo, che pure commette l’errore di guardare più al passato che al futuro, è un tentativo di risposta a questo globalismo che tutto livella. Ma se penso all’Unione Europea, che è una cosa diversa dall’Europa, ritengo che se negli ultimi dieci-quindici anni avessimo avuto un po’ più di sovranismo, questo ci avrebbe fatto bene.
Perché dice così?
Troppa burocrazia. Questa Europa è troppo lontana da come fu concepita e voluta da Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Ormai siamo al ridicolo. Tempo fa voleva obbligare tutte le banche a fare un elenco dei debitori, catalogarli a seconda del grado di insolvenza e poi voleva pure imporci i giorni e le ore cui fare loro le telefonate per sollecitarli a estinguere il debito! Una normativa uguale dalla Finlandia alla Sicilia. Per fortuna ce ne siamo accorti e l’abbiamo bloccata, ma io rimango sbalordito dal fatto che ci sia qualcuno che trascorre il tempo a fare queste belle pensate.
La burocrazia, altra cosa che non le garba.
Ovunque, ma soprattutto in Europa, tocca ormai apici di comicità: è un corpo autonomo pieno di privilegi e potere. Tutte le rivoluzioni iniziano perché la gente non ne può più di mantenere la burocrazia. C’è un bel libro di Charles Adams, recentemente pubblicato da Liberilibri (For Good and Evil. L’influsso della tassazione sulla storia dell’umanità) che racconta proprio questo fatto, a cominciare dall’impero romano dove alcuni rinunciavano al privilegio della cittadinanza per trasferirsi oltre il limes nei territori barbari pur di pagare meno tasse.
A proposito di tasse. La sua Confedilizia ha notato che il Fondo monetario internazionale ha consigliato al governo italiano di tassare la prima casa per recuperare 8 miliardi di euro.
Questi economisti! Predicano sempre di tassare il mattone. Come dico sempre, in Italia si paga già la patrimoniale: sono le imposte sulla casa. Aggiungerne di nuove significherebbe aggravare una situazione resa complicata dal governo Monti dietro cui, ne sono convinto, c’era la grande finanza internazionale che con quella mossa ottenne il risultato desiderato: scoraggiò il settore degli investimenti immobiliari a favore degli investimenti in strumenti finanziari. Come banchiere dovrei esserne felice e invece penso il contrario; penso che se riparte l’immobiliare, riparte l’Italia.
Lei è stato tra i maggiori oppositori della riforma Renzi che ha trasformato in Spa le banche popolari. L’anno scorso, in un’intervista a Tempi disse che dietro quel decreto «c’era Jp Morgan, c’erano le banche d’affari e i fondi che mirano ad appropriarsi del mercato italiano del credito, per creare un oligopolio».
Confermo. Ho scritto un libro su questo (Siamo molto popolari, Rubettino) in cui riporto tutti i numeri a supporto di questa tesi. In fondo, basta guardare i dati di fatto: tutte le banche, non una esclusa, che si sono trasformate da cooperative, quindi con voto capitario, in Spa si sono consegnate ai fondi di investimento stranieri, soprattutto statunitensi.
Quest’anno scade il mandato di Mario Draghi alla Bce. Già in molti in Italia si dicono preoccupati per chi andrà a occupare la sua poltrona. Durante il suo mandato, Draghi ha fatto ricorso al quantitative easing, l’immissione di moneta per tenere il tasso di inflazione dell’Eurozona attorno al 2 per cento. Il suo successore potrebbe cambiare la politica dei tassi bassi e l’immissione di liquidità.
Già, ma Draghi che risultati ha ottenuto? Pochi, direi, se stiamo ai fatti anziché ai peana dei suoi adulatori. Perché i fatti non danno ragione a Sforza Fogliani, ma a Milton Friedman che ricordava sempre che i soldi gettati dall’elicottero non servono a niente. Quei soldi non sono andati all’economia, ma alla grande finanza.
Quindi dopo Draghi e con una politica diversa, andrà meglio?
Vedremo, con l’Europa c’è sempre da essere guardinghi. Draghi ha finanziato certe banche che poi hanno ceduto i fondi alla grande finanza.
Anziché alle imprese.
Esistono statistiche spaventose sul mancato credito alle piccole e medie industrie. Le grandi banche non riescono a finanziare le pmi. Le pmi le finanziamo noi, piccole banche di territorio perché guardiamo negli occhi gli imprenditori, li conosciamo, operano vicino a noi, c’è una conoscenza che va al di là di quel che è scritto nei bilanci. Noi siamo vicini agli imprenditori non perché siamo più buoni, ma perché siamo i primi ad avere un vantaggio dal loro successo.
Però gli imprenditori si lamentano anche delle piccole banche…
Anche noi oggi fatichiamo a fare credito. Siamo oberati da normative assurde imposte da Strasburgo e Bruxelles. Passiamo più tempo a comprendere le normative europee che a occuparci dei nostri affari. La mia piccola banca di Piacenza spende più di un milione di euro l’anno solo per controllare che tutto quel che facciamo sia conforme alle leggi europee. Le pare normale?
Non molto.
Per non parlare delle autorità giudiziarie. Noi abbiamo dieci dipendenti che hanno l’unico compito di rispondere alle loro richieste. Serve loro un bonifico del 1972 del tal dei tali? Non è che ci fanno sapere il numero e l’anno, ci chiedono tutti quelli dal 1965 al 1975…
Lei disse che se fosse stato inglese avrebbe votato per il “leave”. Col senno di poi, è ancora per la Brexit?
Sì perché le complicazioni successive al voto sono nate per un’uscita mal guidata dai governanti inglesi. Se, come è successo, parti già con l’idea di un compromesso al ribasso è logico che otterrai meno di quel che ti prefissavi. Ho detto che avrei votato “leave” perché pensavo che la Brexit potesse avere un forte impatto deterrente, dare uno scossone al sistema. E invece niente, anche per la questione irlandese.
Alcuni economisti in Italia predicano l’uscita dall’Euro. Lei che ne pensa? Che effetti avrebbe?
Non lo sa nessuno, non abbiamo precedenti storici. Ogni economista dice la sua, ma nessuno sa davvero cosa accadrebbe. E questa è la forza paradossale dell’Euro: non lo si abbandona perché è difficile immaginare cosa avverrà dopo.
Noi italiani siamo stati penalizzati dall’adottare la moneta unica?
Sì, ne sono convinto. Se ci fosse stato Einaudi lo avrebbe detto lui, con quella sua grande capacità di spiegare la macroeconomia con esempi di vita comune.
Tipo?
Sostituire duemila lire di carta con una moneta da un euro avrebbe per forza provocato un aumento dei prezzi o una svalutazione. È una cosa che capisce chiunque di noi. Quando si andava al ristorante si lasciavano duemila lire di carta: era una buona mancia per un cameriere. Ora se gli lasci una monetina da un euro te la tira dietro. Tutti questi sapientoni macroeconomisti non sono mai arrivati a capire una cosa piuttosto banale: trasformare una moneta di carta in una monetina ha un effetto psicologico. Il mercato è fatto da milioni di individui, da milioni di sensazioni che, giuste o sbagliate che siano, contano, incidono.
Cosa pensa di questo governo? E, in particolare, di certi provvedimenti come il reddito di cittadinanza?
Si è sempre detto che la vera prova per l’esecutivo gialloverde sarebbe stata la legge di bilancio. E la legge di bilancio è un fallimento totale, anche dal loro punto di vista. Hanno fatto un po’ di flat tax, un po’ di reddito di cittadinanza, ma niente di decisivo. E poi non hanno fatto quel che avevano dichiarato, per esempio con le banche di territorio: non hanno fatto niente e c’è voluto un grande impegno da parte nostra per dare un anno di proroga agli istituti che non hanno avuto tempo di convertirsi. Quindi il mio giudizio non è positivo, soprattutto a causa delle iniziative dell’ala pentastellata.
Foto Ansa
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