
Perché la sinistra deve demonizzare i suoi avversari

Antonio Padellaro, fondatore ed ex direttore del Fatto, una vita a sinistra (diresse l’Unità), oggi commentatore per il giornale di Travaglio, ne ha detta una giusta. Ieri ha scritto un editoriale (“La nuova questione morale a perdere degli anti-Papeete“) in cui ha cercato di spiegare ai detrattori di Salvini che continuare ad attaccarlo su questioni marginali, per quanto esecrabili, come gli show in spiaggia, è controproducente.
Primo, perché sono argomenti frusti e di nessuna consistenza politica. L’avversione di chi già di suo detesta Salvini non ha bisogno di ulteriori conferme. E chi lo ama vedrà in ogni polemica contro l’eroico Capitano esclusivamente il malanimo degli avversari. Secondo, perché l’indignazione della sinistra si riproduce per partenogenesi all’interno di uno stesso mondo esclusivo (partiti, giornali, intellettuali): e infatti Silvio Berlusconi ce lo siamo tenuto vent’anni. Per non parlare degli assist involontari serviti al nemico da una cultura del piagnisteo o tempora o mores.
Trasformare tutto in questione morale
Detto da uno che prima con l‘Unità e poi col Fatto non ha fatto altro che demonizzare Berlusconi, l’affermazione ha un qualche valore (magari un cenno di autocritica renderebbe il tutto più sincero). Tuttavia Padellaro coglie il punto quando dice che «trasformare i problemi politici in questioni morali (o di costume, o di bon ton) è del resto il difetto universale dei dem, a cominciare da quelli americani». L’errore concettuale della sinistra è quello di ripetere ossessivamente che «Salvini è sempre il male anche se non si capisce mai dove sia il bene».
Uomini e no
Padellaro però non spinge tali intuizioni fino alle loro estreme conseguenze. Il problema non è, infatti, come ritiene Padellaro, “strategico” (quale sia il modo migliore per colpire Salvini), ma di sostanza: la sinistra non può fare altro che attaccare i suoi avversari da un punto di vista “morale”, perché da un punto di vista “politico” non ha più niente da dire da molto tempo. Poiché, di fatto, tutte le sue idee politiche sono state sconfitte dalla storia, alla sinistra non è rimasto altro che rintanarsi in una presunta differenza etica (la famosa “superiorità morale”, appunto). Noi siamo i buoni, loro i cattivi. Noi siamo uomini, loro no (come recitava il titolo di una recente copertina dell’Espresso). I grillini, in fondo, non sono altro che l’epigono guascone e scalcagnato di questa impostazione, i figli che hanno imparato la lezione dei padri e a essi si sono ribellati quando ne hanno scoperto le incoerenze (tutte le battaglie da cui è nato il consenso grillino sono state “etiche” a partire dalle denunce contro i parlamentari indegni di avere un seggio a Camera e Senato).
Un nemico da demonizzare
Proprio a proposito della copertina dell’Espresso, il sociologo Luca Ricolfi, uomo di sinistra ma col giusto disincanto, spiegò così la questione a tempi.it:
«C’è una profonda differenza fra sinistra e non-sinistra. La sinistra, o meglio una componente ancora importante della sinistra, è convinta della sua superiorità etica rispetto alla destra, mentre il contrario non succede. La destra e i populisti possono detestare l’establishment di sinistra, ma raramente si sentono portatori di una superiore moralità. Quando scrissi Perché siamo antipatici? (quasi quindici anni fa) pensavo che nel giro di qualche anno la sinistra sarebbe guarita dal suo complesso di superiorità morale, ma mi sbagliavo: è migliorata molto con Veltroni e il Renzi di governo, ma è bastata la sconfitta del 4 marzo a farla tornare ai peggiori anni dell’antiberlusconismo. Forse la classe dirigente che guida la sinistra, non avendo vere soluzioni per i problemi del paese, ha bisogno di un nemico da demonizzare, disprezzare, odiare: ieri era Berlusconi, oggi è Salvini».
Virtù autoassegnata
L’altroieri Andreotti, ieri Berlusconi, oggi Salvini, domani toccherà ad un altro. La sinistra non può fare altro che demonizzare l’avversario perché questa “è” la sinistra. Volendo fissare una data d’inizio di questa concezione dobbiamo tornare al 28 luglio 1981, alla famosa intervista di Eugenio Scalfari ad Entrico Berlinguer. È lì che viene messo nel terreno il seme della pretesa superiorità, che si espliciterà negli anni a venire attraverso tutte le fasi del passaggio dal Pci al Pds ai Ds al Pd, passando per Mani Pulite (dove si sposò, anche per convenienza, il “partito dei giudici”), fino ai giorni nostri. Se non si ha più un’identità e se si è estromessi dal potere, si può solo rivendicare di essere “più” virtuosi. Una virtù che ci si è auto-assegnati e che non potendosi auto-avverare per meriti propri trova legittimità solo nell’ossessiva demonizzazione dell’avversario.
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