
Sono contrario agli inginocchiamenti antirazzisti (in realtà pro-Blm, che non è antirazzismo generico ma movimento politico di stampo marxista che porta avanti un discutibilissimo programma di impostazione comunitarista) perché, come ho già scritto tre anni fa al tempo del Mondiale in Russia, sono contrario alla politicizzazione dello sport. Lo sport avrebbe dovuto continuare ad essere, come al tempo delle Olimpiadi antiche, il tempo della tregua; il tempo in cui ogni conflitto è sospeso, ogni rivendicazione è sopita, ogni richiesta di giustizia trattenuta. Lo sport agonistico è sublimazione della guerra e della lotta per la sopravvivenza; è trasferimento su un piano simbolico della rivalità che tanto spesso contrappone gli esseri umani, compresa quella condensata in strutture di dominazione: nello sport il discendente di schiavi affronta il discendente del proprietario di schiavi, il figlio della vittima di conflitti balcanici affronta il figlio del boia di conflitti balcanici, ecc. Il prezzo di avere politicizzato lo sport (a partire dai pugni chiusi guantati di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico e dai boicottaggi delle Olimpiadi di Montreal, Mosca e Atlanta da parte di distinti gruppi di paesi) è di avere riportato la divisione e il conflitto all’interno dello sport, là dove prima non c’era: plastico a questo riguardo il caso della nazionale italiana di calcio, metà inginocchiata e metà no prima della partita Galles – Italia. Allo stesso modo l’Italia nazione unita intorno alla Nazionale di calcio adesso è divisa fra i favorevoli e i contrari, fra chi critica gli inginocchiati e chi critica i non inginocchiati.
Da dove è nata questa volontà di de-sublimare lo sport, di riassorbirlo nei conflitti e nelle lotte politiche? Evidentemente da una visione panpoliticista, progressista, millenarista della realtà: si crede che gli esseri umani possano davvero realizzare il Paradiso in terra, superare tutti i loro conflitti e realizzare tutti i loro desideri (che in realtà spesso sono solo pulsioni scambiate per desideri), e quindi l’idea della tregua, l’idea che ci sia qualcosa che va messo al riparo dalla lotta politica perché comunque la politica non è la risposta a tutto, svanisce. La categoria del peccato originale che condanna l’uomo all’imperfezione terrena – saggiamente condivisa anche da atei/agnostici come Isaiah Berlin, Alain Finkielkraut, John Gray, ecc. -non è più di moda. Tutto di nuovo è politica, come nel Sessantotto. Il risultato non è soltanto la divisione e la contrapposizione non più sublimate ma reali in quanto schiettamente politiche, ma anche lo spettacolo dell’ipocrisia e della contraddizione. Perché, evidentemente, viene subito da chiedersi a quale titolo gli squilibri razziali negli Stati Uniti e i “diritti sociali Lgbt” (citazione da Repubblica) meritino la propaganda rispettivamente di calciatori inginocchiati e del capitano della Germania con una fascia arcobaleno al braccio, e altri drammi internazionali dei nostri giorni no: i diritti degli uiguri e dei cittadini di Hong Kong spudoratamente violati dalla Cina, i rohingya perseguitati in Birmania, i tigrini massacrati in Etiopia, le minoranze religiose del Pakistan (in particolare i cristiani) abusate e perseguitate in molti modi senza che il potere le difenda anzi a volte rendendosi complice, i dissidenti incarcerati in Egitto, Arabia Saudita, Iran, e in molti paesi africani, ecc. E poi l’ambiente? E le donne? E i non nati perché abortiti? E i migranti annegati nel Mediterraneo? E i morti per fame? Le buone cause – o apparentemente tali, buone per qualcuno, raramente per tutti – sono tante. In teoria potrebbe succedere, come in una vignetta di “Gorgon – Il lato oscuro dello Zola”, che la partita di calcio non cominci mai perché ci sono troppe buone cause meritevoli di un minuto di inginocchiamento da parte dei calciatori. Ma questo non succede e non succederà, perché l’indignazione nel mondo dello sport è selettiva e a geometria variabile, e questa edizione degli Europei rappresenta al riguardo un capolavoro di ipocrisia. All’Europeo hanno partecipato squadre di paesi come la Turchia, secondo paese al mondo per numero di giornalisti incarcerati; di paesi come Russia e Ucraina che sono virtualmente in stato di guerra per interposti separatisti del Donbass e per l’occupazione russa della Crimea; sono state giocate tre partite e si giocherà un quarto di finale a Baku, capitale dell’Azerbaigian, paese che non ha ancora restituito all’Armenia tutti prigionieri della guerra del Nagorno Karabakh dell’anno scorso, alcuni dei quali hanno subìto e probabilmente ancora subiscono maltrattamenti e torture, e che ha programmato l’abbattimento della cupola della cattedrale di Sushi nella regione. A questi drammi che si compiono in territorio europeo i calciatori degli Europei e le trasmissioni di commento su reti come la Rai non dedicano nemmeno un secondo del loro tempo, figuriamoci una genuflessione.
Ci tengo infine a sottolineare che la mia contrarietà agli inginocchiamenti antirazzisti dei calciatori non dipende solo dal motivo di principio che lo sport dovrebbe restare al riparo dalle campagne politiche, ma anche dalla mia particolare idiosincrasia per i Black Lives Matter. Essa dipende non tanto dal loro substrato marxista, quanto dalla loro implicazione nelle campagne per la rimozione-abbattimento-imbrattamento di statue in giro per il mondo. Abbattere o sfigurare statue dei nostri antenati è un atto nichilista e autolesionista anche quando si tratta di personalità coinvolte in comportamenti moralmente reprensibili. Anzitutto perché senza di loro non ci saremmo noi, e spesso noi usufruiamo di vantaggi materiali radicati nei loro atti, quelli commendevoli come quelli reprensibili. Liberarci delle loro statue per ragioni morali oggi è una manifestazione di ingratitudine e di ipocrisia. In secondo luogo, abbattendo le statue dei cattivi ci neghiamo la possibilità di perdonarli, cioè di compiere l’atto morale più alto che un essere umano possa esercitare. In terzo luogo, abbattere le statue degli antenati che si sono macchiati di gravi colpe è un modo troppo economico di rimediare ai mali da loro compiuti: anziché riscattarli e riscattarci facendo magari leva sui loro lasciti, ce la caviamo con la posa virtuosa dell’indignato. In quarto luogo, il moralismo intransigente nei riguardi del passato – decontestualizzato dalle circostanze e dagli usi e costumi dei tempi che ci hanno preceduto – ci porta a rompere col passato, rende impossibile la memoria e il senso di continuità delle generazioni: ci trasforma in orfani solitari, presuntuosi e rancorosi. In quinto ed ultimo luogo, tale moralismo alimenta quel pessimismo radicale sulla natura umana – fallibile e condizionata dai contesti culturali e dai rapporti di potere – che spinge a optare per il transumanesimo: visti con gli occhi di oggi, anche i più prestigiosi fra gli uomini del passato appaiono pieni di orribili difetti e terribili colpe. Dunque non c’è altra soluzione che costruire l’uomo nuovo a tavolino, il cyborg infallibile. Che però, come tutti i prodotti, diventerà dopo un po’ di tempo obsoleto: l’obsolescenza ci colpirà e ci spingerà ai margini quando saremo ancora in vita. I nostri antenati vengono disprezzati in effigie, i nostri figli e nipoti lo saranno nel corpo e nell’anima. La strada è un’altra, è quella che Fabrice Hadjadj suggerisce in un passaggio del suo Être père avec saint Joseph: «Colui che vuole uscire dalla storia attraverso una metamorfosi che lo trasformi in bestia o in angelo, in cyborg o in sirena, rompe col tempo, ma non lo riscatta. Solo un figlio può farlo. Così Gesù».
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