Il Deserto dei Tartari

Perché gli eurocrati si sono meritati la Brexit

brexit merkel hollande renzi

Sono passate tre settimane dalla sorpresa della Brexit, la polvere dei commenti a caldo s’è posata a terra e si sta sedimentando. Si può cominciare a ragionare in modo meno emotivo ed estemporaneo. E ci si può concedere il lusso di commentare i commenti, non per il gusto di avere l’ultima parola o per la pigrizia di approfittare dei pensieri altrui per modellare i propri, ma perché i commenti che si sono letti e sentiti in giro aiutano a capire le radici della crisi irreversibile dell’Unione Europea.

Due cose mi hanno non dico colpito, ma addirittura sbalordito nelle reazioni della stampa mainstream e dei suoi lettori: la delegittimazione del voto e il disprezzo verso gli elettori anziani. Da un capo all’altro d’Europa si sono rincorse le voci di chi diceva che non era stato giusto permettere ai britannici di mettere ai voti la loro partecipazione all’Unione Europea, che l’oggetto del contendere era troppo complesso e sofisticato per consentire a chiunque di esprimersi e di concorrere a determinare la decisione finale. In Italia Mario Monti e Carlo De Benedetti hanno usato la stessa espressione per bollare l’esercizio della sovranità popolare: «Un abuso della democrazia». Molti si sono rallegrati che la Costituzione italiana non ammetta referendum in materia di trattati internazionali.

Ancora più sconcertanti le reazioni alle analisi secondo cui la maggioranza degli elettori anziani avrebbe votato per il “sì” all’uscita, mentre la maggioranza dei giovani (che però hanno registrato un tasso di astensione più alto di quello di altri gruppi di popolazione) avrebbe optato per il “no”: «I giovani pagheranno le decisioni degli anziani», ha titolato in Italia Il Fatto quotidiano, mentre La Stampa ha scritto: «I più anziani hanno deciso il futuro dei più giovani. Vivranno le conseguenze del voto per una media di 69 anni, a fronte dei 16 degli ultrasessantenni». In Francia la giornalista di Le Monde Helene Bekmezian ha diffuso un twitter che suonava così: «Il diritto di voto è come la patente di guida: a una certa età, diciamo la verità, dovrebbe essere ritirato». Mentre il neogollista François Fillon ha dichiarato che i giovani dovrebbero avere a disposizione due voti.

La manifestazione di ostilità a quella forma basilare di esercizio democratico che è la consultazione elettorale degli aventi diritto merita un approfondimento. Non è reazione momentanea dovuta a stizza per un risultato opposto a quello che il commentatore sperava. L’allergia per la democrazia intesa come potere di decisione da parte del popolo nell’ambito dell’Unione Europea viene da lontano, si è sostanziata nel famoso deficit democratico delle sue istituzioni e a lungo andare ha innescato reazioni di rigetto: negli ultimi undici anni elettori di vari paesi affiliati alla Ue hanno votato contro i suoi trattati. Ricordiamo i “no” alla Costituzione europea da parte di Francia, Olanda e Irlanda. L’esito di quei referendum fu poi aggirato in vari modi, ma il campanello d’allarme era suonato. È curabile l’allergia alla democrazia dell’Unione Europea? Io credo di no, e credo anche che questa sarà una delle cause della sua futura disgregazione.

I padri fondatori dell’Europa Schuman, Adenauer e De Gasperi diffidavano dei loro popoli avendo tutti fatto l’esperienza, seppure con gradazioni diverse, del consenso popolare a dittature e totalitarismi: Hitler conquistò il potere in Germania con una sonante vittoria alle elezioni del 1933, in Italia il fascismo salì al potere con un colpo di mano ma seppe conquistarsi un consenso maggioritario nel giro di pochi anni, in Francia la propaganda collaborazionista e il governo di Vichy convinsero moltissimi francesi ad accettare l’occupazione nazista o a collaborarvi attivamente.

Anche in altri paesi europei l’occupazione nazista incontrò significativi consensi popolari: pensiamo all’Olanda, all’Ungheria, ai tre paesi baltici. Per garantire la vittoria dei partiti democratici filo-occidentali nelle prime elezioni del Dopoguerra furono necessari i miliardi di dollari del Piano Marshall e la messa al bando in Italia del Partito fascista e in Germania di quello comunista. Venne la Guerra fredda, e l’integrazione dell’Europa non comunista in parallelo alla costituzione della Nato divenne questione di vita o di morte per le neonate democrazie: in paesi politicamente polarizzati come l’Italia e la Francia non la si poteva certamente affidare agli umori del voto popolare.

Insomma, le élite europee di oggi concordano almeno in un punto col modo di pensare dei padri fondatori: oggi come allora nell’esercizio della sovranità da parte del popolo vedono un pericolo, il pericolo dello scivolamento verso il nazionalismo o verso il totalitarismo. Per evitare il ritorno della guerra in Europa, il ritorno del razzismo, la ripetizione della Shoah, la sostituzione del totalitarismo nazista o fascista con quello comunista occorreva sostituire le sovranità nazionali con una sovranità sovranazionale affidata alle élite politiche e tecnocratiche.

Nascono così quelli che Lucio Caracciolo definisce i tre articoli di fede del credo europeista: «a) lo Stato nazionale è categoria del passato, al meglio quale stadio della transizione all’Europa unita, al peggio come produttore di guerre mondiali; b) l’Europa non è mai il problema, è sempre la soluzione – bonum per se – da cui deriva la superiorità del metodo comunitario sull’intergovernativo; c) la democrazia rappresentativa, in quanto storicamente incardinata negli Stati nazionali, è categoria imperfetta, da cui il grado comunitario-tecnocratico deve assicurarsi immune, per compensarne i difetti (ovvero la sensibilità all’opinione pubblica e al periodico voto popolare, ribattezzati “populismo”). Corollario: peggio del parlamentarismo è solo il referendum, tanto che prassi vuole debba ripetersi qualora abbia prodotto esiti avversi al “consenso di Bruxelles”, fino a sancire il risultato giusto».

Quanto fin qui detto aiuta a capire lo stomachevole fenomeno del dileggio e della deprecazione del voto degli ultrasessantenni. In tutte le culture non occidentali sotto la luce del sole, quelle del passato ma anche quelle contemporanee, l’anziano è l’incarnazione della saggezza, perché avendo vissuto di più conosce più cose e le conosce meglio, ed è rispettato e onorato in quanto simboleggia la tradizione e l’identità. Se nell’Africa sub-sahariana si decidesse di attuare la proposta di François Fillon, i due voti a testa verrebbero concessi agli anziani, non ai giovani, sulla base del fatto che i primi sono più saggi dei secondi, perché hanno vissuto di più e perché sono più vicini, in tutti i sensi, agli antenati.

Ora non si può pretendere che gli europei, figli dell’illuminismo e quindi dell’abolizione della nozione di auctoritas, venerino gli anziani e la famiglia come in Cina o in Africa o nel Vicino Oriente, ma almeno che continuino a rispettare la Carta europea dei diritti umani, sì. All’articolo 21 infatti si legge: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

Perché gli europei vorrebbero discriminare gli anziani in ambito politico? Perché gli anziani incarnano la storia e l’identità, e storia e identità sono le due cose che il progetto dell’Unione Europea intende cancellare. Per gli “europeisti” la storia europea è storia di guerre, imperialismo, discriminazioni e genocidi, di cui l’identità nazionale è il brodo di coltura. L’Unione Europea, allora, non è un progetto nato per valorizzare la civiltà europea nella sua concretezza storica, ma per creare un’Europa cosmopolita che finora non è mai esistita, e che rappresenterebbe la realizzazione politica di un’astrazione.

Le cose più chiare su questo argomento le ha scritte il sociologo tedesco Ulrich Beck: «L’Europa cosmopolita è stata costruita come antitesi dell’Europa nazionalista e delle devastazioni tanto morali che fisiche di cui quest’ultima è stata causa». Perciò l’europeismo «chiama l’Europa a fuggire lo specifico, il radicamento, l’eredità e l’appartenenza. Non è accidentale che l’europeismo accetti una definizione procedurale. L’altra faccia di questa vacuità sostanziale è la tolleranza radicale, l’apertura radicale, questo è il segreto dell’Europa».

Per questo motivo l’Unione Europea potrebbe domani comprendere al suo interno non solo la Turchia, ma il mondo intero: essere europei non è avere una storia e appartenere a una civiltà, è sottoscrivere una serie di valori e aderire a delle procedure. L’Unione Europea sarebbe una mutazione dell’idea imperiale dell’antichità e del Medio Evo: non più un’entità che si definisce per opposizione, identificando sé con la civiltà e quel che sta fuori con la barbarie, ma che è aperta a tutti e a tutte le differenze sulla base del principio di non discriminazione.

Gli elettori britannici hanno evidentemente rigettato questa idea di Unione Europea. Hanno rivendicato i diritti dell’identità storica, l’esercizio della sovranità popolare, la continuità della civiltà preesistente. Che non sono cavalli di battaglia di proprietà esclusiva dei leader populisti come Nick Farage, Marine Le Pen o Matteo Salvini, o formule di nobilitazione dei sentimenti xenofobi delle plebi. Intellettuali al di sopra di ogni sospetto hanno espresso concetti che oggi suonano euroscettici.

Michael Walzer, filosofo americano egualitarista, metteva in guardia già trent’anni fa che «abbattere i muri dello stato non significa creare un mondo senza muri, ma creare un migliaio di piccole fortezze». Davvero un aforisma su cui meditare, oggi. E già vent’anni fa lo storico neozelandese John Greville Agard Pocock denunciava, come spiega Lucio Caracciolo, «l’ossessione europeista di ricomporre le storie nazionali o locali in una superiore, armonica, definitiva storia europea». Ossessione che «deriva dal rifiuto ideologico della sovranità implicito nel rigetto della responsabilità democratica». Ma, scriveva Pocock, «sovranità e storiografia, una voce per controllare il proprio presente e una voce per controllare il proprio passato, sono stati e restano i mezzi necessari grazie ai quali una comunità afferma la propria identità e offre un’identità agli individui che ne sono parte».

Caracciolo tira la conclusione: «Ma se sovranità e storia debbono scomparire, su che cosa fonderemo un’identità, europea o meno? Nel rifiuto della storia in quanto legittimazione della sovranità e criterio d’identificazione della comunità sta la ragione prima del tramonto del credo europeista».

E questa è anche la critica che Alain Finkielkraut ha sempre fatto al processo di integrazione europea: l’universalismo astratto dei valori si scontra col fatto che ogni valore si presenta attraverso realizzazioni storiche. Non esiste “la” democrazia, ma le democrazie britannica, francese, americana, italiana, israeliana, eccetera. Perciò non si possono affermare dei valori senza affermare la specifica civiltà che li porta e li compie. Se si tagliano completamente i ponti con la civiltà da cui si proviene, non si costruisce l’Impero europeo del bene universale, ma una tecnocrazia e un supermercato mondiale.

Questo è l’equivoco che sta affondando l’Unione Europea, e che fa dichiarare a Finkielkraut in una trasmissione radiofonica di commento alla Brexit: «Gli eurocrati se la sono meritata».

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Articoli correlati

1 commento

  1. Condivido ciò che ha appena descritto. Il disegno di questi oligarchi,fasulli senza identità. Ancorati a logiche di potere sovranazionali,ritenendo i popoli un impiccio da sbarazzarsene con ogni mezzo.
    Ma questo l’italiano “scritto in minuscolo” perchè io non lo considero un popolo assolutamente, ha sentore di ciò che sta accadendo sulle nostre teste.

    Saluti. Marcus

I commenti sono chiusi.