
Perché ho pensato a questo titolo per il Meeting
Il titolo mi è venuto in mente durante gli esercizi della Fraternità a Rimini l’anno scorso perché don Giussani riprendendo il testo del canto di Maretta Campi e Adriana Mascagni, “Povera voce”, si è soffermato più di una volta sul passo che dice «Tutta la vita chiede l’eternità». Penso che questa espressione apra uno spazio molto ampio nel suo ricongiungere un valore esistenziale forte, concreto, di esperienza, che è quello della vita, ad un valore che va oltre la vita stessa. Mi pare che in questo titolo ci sia una forte compresenza di un elemento fisico e di un elemento metafisico. Il concetto di eternità non è assolutamente da intendersi come qualcosa di astratto e di separato dalla vita, perché nessuno può avere in mente l’eternità se non vivendo. Non può appartenere l’eternità ad una sfera separata dell’esistenza. È una sottolineatura importante per evitare qualunque polemica di tipo escatologico. Nel senso che l’eternità non è una fase che si apre a distanza dell’esistenza. In questo senso ha un valore esperimentabile nei gesti che si fanno. Come quasi tutti i titoli del Meeting, dovrebbe avere un carattere di universalità, da non intendersi quindi unicamente in una chiave cristiana, e questo senso dell’eternità è secondo me in tutti gli uomini perché nessuno vorrebbe che ciò che fa, che la sua vita stessa, finisse. Ma il vero problema è di come poter risolvere il rapporto con qualcosa che continui oltre l’esistenza. Questo non lo si può immaginare in senso fisico; lo si può immaginare unicamente come valore religioso. A questo punto si pone anche per chi crede il problema di dare compiutezza e apertura a ciò che fa. Quello che fa non può essere compiuto fino in fondo, specialmente se uno lo vede in un Mistero che come tale non può essere completamente afferrabile, non può neanche essere sottoposto a un tipo di indagine assolutamente razionale né tanto meno può essere sottoposto a definizione. Ciò che può chiedere invece è che tutto il valore dei gesti che compie, dei rapporti che stabilisce con le persone, che tutto ciò che fa, abbia una continuità dal momento in cui si compie. Ed è questo il punto chiave della questione: ossia di come l’eternità può entrare nella vita. Io credo che la risposta sia in fondo una: per chi crede, per chi è stato chiamato ad un certo tipo di esperienza e quindi appartiene ad un’origine che ha una immediatezza di senso e che si traduce subito nel modo come vive, riuscire a chiedere fino in fondo che ciò che fa non si perda e non muoia è preghiera. È soltanto nella preghiera, nel senso letterale del termine (non in quei termini collaterali che vengono talvolta usati dai cristiani anche per una forma di ritegno, quasi di moralistica circospezione). Bisogna tornare a dare alla parola preghiera il significato più semplice che ha per l’uomo. Per cui sono certo che nell’atto della preghiera l’uomo può approssimarsi nel modo più diretto possibile al senso della vita totale. Non c’è rapporto umano, situazione strettamente umana che ci faccia provare anche momentaneamente, quasi come anticipo di una libertà che ci sarà riservata un giorno, il senso della libertà. Perché l’uomo nel momento in cui prega è messo a contatto con quell’infinito che altrimenti non potrebbe cogliere fino in fondo. Perché tutte le volte che non alza gli occhi verso i monti, come dice il salmo 120, si trova di fronte ad una situazione di finitezza che come tale non può dare soddisfazione, neanche momentanea alla sua sete di libertà. L’eternità è quella fuga verso l’infinito che si può comprendere soltanto passando attraverso dei punti precisi che sono quelli dell’esistenza.
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