Per liberare il sesso ha fatto di più Cristo del Sessantotto

Di Giancarlo Cesana
15 Aprile 2019
Perché, davanti a tanta rovina lasciata dalla cosiddetta "liberazione sessuale", non si può non difendere e sostenere la concezione cattolica dell'amore

Articolo tratto dal numero di Tempi di aprile 2019

Non si può parlare delle conseguenze del ’68, senza almeno accennare alla rivoluzione sessuale di cui quel momento sarebbe stato l’origine. Qui, appunto, accenno e niente più perché non mi interessa entrare in analisi sociologiche e morali, scontate nei dettagli come nelle differenze a seconda delle visioni culturali.

Si dice comunemente che i grandi mutamenti della concezione e del comportamento sessuale di oggi abbiano avuto origine nel ’68. Può darsi. Io, però, allora non me ne resi conto o non ci feci caso. Il problema era la giustizia e non il sesso, il quale, certamente praticato con maggior intensità nelle aule occupate e fuori, non era sbandierato come diritto, ma era considerato come un eccesso dovuto alla promiscuità e ai minori controlli. Così almeno la pensavo io e quelli che la pensavano come me, ricordandovi che né io né loro eravamo ciellini, né particolarmente praticanti. Eravamo però ingenui e ancora molto influenzati dall’educazione tradizionale, che proibiva decisamente il sesso al di fuori del matrimonio e tanto meno “omo”. Sta di fatto che proprio a ridosso del 1968, nel 1970, venne approvata la legge che istituiva il divorzio e che resistette al referendum abrogativo promosso dai cattolici quattro anni dopo. Questi perdettero per 41 a 59 per cento, su 33 milioni di votanti, pari all’88 per cento degli aventi diritto. Fu una sconfitta clamorosa, che dimostrò come la mentalità del popolo italiano sulla stabilità della famiglia, quale espressione e realizzazione paradigmatica della sessualità, era sostanzialmente cambiata.

Fu questa una conseguenza del ’68? Sì, ma non propriamente del Sessantotto rivoluzionario e marxista, bensì della sua fondazione borghese e radicale, denunciata da Del Noce e ampiamente commentata nelle puntate precedenti. Lo stesso Giussani in un intervento del 1972 (“La lunga marcia della maturità”, in Tracce, marzo 2008) osservava che «l’autenticità perseguita generava il libertinaggio, generava un concetto di “libero amore” che non ha nulla da invidiare ai momenti più bassi e più corrotti della società borghese, comunque frutto della ostilità al passato, della reazione al passato, del “vengo io”; e perciò quello che io provo, quello che io sento, questo era l’originalità, la purità originale, l’età dell’oro dell’umanità!». E Giussani non era un bacchettone: fu il primo prete a dar vita a gruppi giovanili misti, con diffuso scandalo dei suoi colleghi, dei genitori e degli insegnanti; non aveva certo paura del sesso.

Quella che oggi viene chiamata liberazione della sessualità è esplosa negli ultimi anni con la teoria del gender, che afferma l’indifferenza tra i sessi, il matrimonio omosessuale, e la relativizzazione marcata del valore della famiglia, come ideale personale e sostegno primario della società. Adesso il ’68 insurrezionale e marxista non c’è più. Ci sono il narcisismo e il consumismo che lo hanno riassorbito. Ed è proprio adesso che il martello del politicamente corretto sta imponendo una concezione della sessualità, i cui valori sono profondamente diversi da quelli riconosciuti per secoli, anche da chi non li praticava. La messa in questione della sessualità, come tradizionalmente vissuta, è seria perché, trattando della tensione al rapporto, nei suoi aspetti non solo istintivi, ma anche affettivi e cognitivi, riforma tutta la struttura della personalità. Questa non esiste isolata. È fatta di relazione con l’altro e sussiste per essa come costituzione e come fine. Sbagliare contenuto e modo dei rapporti è un errore che può rovinare la vita, dei singoli e della società.

Nihil parvi de sexto

«Nihil parvi de sexto» (non sono certo della citazione, ma mi piace) disse tanti anni fa don Angelo Scola, divenuto poi cardinale di Milano, parlando di sesso a un gruppo di giovani, tra cui io, durante una cena. Sexto è il sesto comandamento del decalogo: «Non commettere atti impuri», cioè non abusare della sessualità. Non c’è nulla di piccolo (poco rilevante, ndr) in questo abuso, perché le sue conseguenze sono sempre dolorose per chi abusa e per chi è abusato. È indubbio che i vorticosi cambiamenti degli ultimi tempi stiano producendo domande e paure. Con l’indebolimento della famiglia sta dilagando nei giovani l’incertezza affettiva e quella che è diffusamente indicata come emergenza educativa a fronte di vere e proprie dipendenze da internet, piuttosto che dalla droga o da legami morbosi. La sessualità celebrata come amore e quindi bene in ogni sua forma è nello stesso tempo denunciata come origine di molestie e violenze. La verità è che non ci siamo fatti da noi; siamo creature e non possiamo fare quello che ci pare e piace; in tutti gli aspetti della vita e quindi anche nell’“amore” ci sono un fine e una regola, non determinati da noi, che dobbiamo seguire se vogliamo essere felici.

Il fine e la regola dei rapporti, soprattutto dal punto di vista della sessualità, per anni, per secoli, nella società occidentale plasmata dal cristianesimo, sono stati riconosciuti e fissati in termini così chiari e duraturi che la loro decadenza o mutazione sembrava impossibile. Certo, i costumi potevano rilassarsi a seconda dei tempi e delle condizioni sociali, ma eccezionali erano le posizioni che attaccavano teoricamente e praticamente i princìpi e le forme ideali cui la sessualità doveva ispirarsi. Non a caso i militanti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender) denunciano i tempi passati come oppressivi ed emarginanti; adesso invece nella mentalità comune e soprattutto in quella delle élite culturali che la formano sembrano vincitori. Ogni atteggiamento critico o semplicemente dubitoso nei loro confronti viene facilmente indicato al pubblico disprezzo come retrogrado e omofobo, fino alle scemenze proferite da importanti esponenti politici, quali ad esempio Di Maio e Buffagni dei Cinquestelle, Cirinnà e Zingaretti del Pd, sul Convegno internazionale della famiglia tenuto a Verona a fine marzo. Per loro la famiglia, che c’è da quando ci sono l’uomo e la donna, che ha fatto procedere il mondo “di generazione in generazione”, sembra essere addirittura una disgrazia e il soffocamento della vita.

Come è potuto succedere questo “crollo delle evidenze”, che sembravano indiscutibilmente solide, in così breve tempo? È la domanda affrontata dal cardinal Ratzinger nel libro L’Europa di Benedetto e la crisi delle culture (Lev-Cantagalli) e ampiamente ripresa e commentata nelle sue conseguenze, nella società e nella cristianità, da don Julián Carrón nel suo testo-manifesto La bellezza disarmata (Rizzoli). Lo stesso Carrón mi ha dato una risposta con un esempio assai azzeccato, che ripeto a senso, con parole mie. La società cristiana è come una stanza riscaldata da un fuoco, da una caldaia, che è la fede, la quale tiene vivi i suoi valori. Se la caldaia, cioè la fede, si spegne, la stanza non si raffredda immediatamente, ci mette un po’, così che i valori cristiani sembrano sopravvivere in una pratica che, tuttavia, si affievolisce man mano che la stanza diventa fredda, fino a scomparire. È quanto sembra stia succedendo, con una rapidità inaspettata, dice Ratzinger, corrispondentemente a quello che appare un altrettanto rapido raffreddamento della caldaia.

La fecondità è vergine

Che fare? È la domanda drammatica che angustia i cattolici che tengono giustamente ai loro valori, vissuti nella fedeltà coniugale e nell’educazione dei figli al rispetto della sessualità, che nella vocazione al matrimonio o nella verginità trova il suo compimento. Sì, anche nella verginità. Che una persona dedichi la vita, sessualità inclusa, a Dio è un fatto eccezionale, il cui scopo è la testimonianza dell’amore gratuito di Dio per tutti gli uomini, secondo una fecondità spirituale, generatrice di amicizia e, anche più di quella biologica, di figli per la Chiesa e per il mondo. Una tale fecondità nello stesso tempo imita e sostiene quella, comune, della famiglia. Un uomo e una donna che si amano non sono veramente compagni e generativi, se non imparano dalla gratuità della verginità, che per possedere tutto non possiede nulla. L’adulto si distingue dal giovane perché ci si aspetta da lui che sia fecondo e gratuito, cioè costruttivo e non infantilmente capriccioso. La verginità è la via eccezionale per imparare la fecondità dalla gratuità. Il matrimonio è la via comune per imparare la gratuità dalla fecondità del rapporto tra i coniugi. Le dimensioni fondamentali dell’amore sarebbero astratte, prive di esempi, se non ci fossero preti, frati, suore e sposati. Il problema sta diventando proprio questo: che l’amore è un interesse astratto e quando non è astratto rischia di cadere in un istinto pericoloso.

Una salvezza che riguarda tutto

Non si può allora non difendere e sostenere la concezione cristiana dell’amore e della sessualità. È la testimonianza particolare, ma fondamentale, dell’esperienza di umanità nuova e vera prodotta dalla sequela di Cristo. Bisogna però, appunto, seguire Cristo, altrimenti l’amore “cattolico” è percepito come un’inclinazione e una scelta particolare, non decisiva per i destini personali e del mondo; quindi opzionale e relativa. Mentre la pretesa cristiana è la salvezza che riguarda tutto, a cominciare dalla fragilità e incostanza affettiva fino alla inutilità della vita il cui fine, consumato dal limite e dall’errore, sembrerebbe la fine, cioè la morte.
C’è un fenomeno che “rappresenta” Cristo in termini evidenti per quanto spesso rifiutati e perseguitati: l’unità nel suo nome, ovvero nel riconoscimento del mistero della sua presenza nel mondo, come salvatore del mondo, a cominciare dalla possibilità di sperimentare i valori di cui sopra. Questi sono conseguenze difficilmente credibili, se non c’è dipendenza da Dio e amicizia tra gli uomini. «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,20-21). Oggi, invece, è il tempo dell’autonomia, anche tra i cristiani: ognuno può pensarla come vuole e guai a chi dice il contrario.

Foto Ansa

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