
Il peccato della spigolatrice di Sapri? Avere due glutei di bronzo

Adesso ce la dovete spiegare, questa cosa per cui la spigolatrice di Sapri non può mostrare il lato b. È incinta come vuole il patriarcato? No. Ha una padella in mano come nelle peggiori pubblicità prima della rieducazione Barilla? No. Frega niente degli usi e costumi di chi raccoglieva le spighe all’epoca del Mercantini o della mise degli insurrezionalisti antiborbonici che si unirono al Pisacane nel 1857, hai visto mai che la Marianne in berrettino frigio che sventolava la bandiera della Rivoluzione francese girasse davvero in topless fuori dai quadri di Delacroix.
Frega niente nemmeno di vedere Garibaldi a chiappe scoperte come rilancia Alessandro Gassman per riequilibrare l’affronto sessista perpetrato dallo scultore Emanuele Stifano, uno che plasma nudi in marmo, bronzo e terracotta da una vita e che da “Michelangelo autodidatta del Cilento” (copy l’Economy), si è trovato a incarnare il maschilista retrogrado che non ha ancora capito che al giorno d’oggi non è mica bello ciò che è bello ma è bello solo ciò che non piace ai maschi tossici.
La spigolatrice ardita
Ora, a Stifano viene commissionata una statua della spigolatrice di Sapri, gioia e dolori degli studenti italiani costretti alla cantilena dei trecento giovani e forti e che sono morti, la giovane che si fa «ardita» e chiede «dove vai, bel capitano» a quello con gli occhi azzurri e i capelli d’oro: ecco, questa giovane, che alla risposta del capitano si sentì «tremare tutto il core» e che Stifano deve piazzare sul lungomare di Sapri, doveva per forza mostrare fierezza abbottonata alla Merkel, somigliare a Sconsolata o vestire come alla fiera della cipolla bionda presidio Slow Food?
Il peccato imperdonabile della spigolatrice di Sapri non è, come tuona Boldrini, rappresentare «un’offesa alle donne e alla storia che dovrebbe celebrare» col suo «corpo sessualizzato», o come rincara Cirinnà, non dire nulla «dell’autodeterminazione di colei che scelse di non andare a lavoro per schierarsi contro l’oppressore borbonico»; il peccato della spigolatrice di Sapri non è nemmeno mostrare sotto una veste attillata il lato b, ma di non essere un puntello narrativo, non avere fattezze che fanno di un corpo «un messaggio per tutte le donne».
Incontrada e perossido
Il virgolettato risale alla presentazione di Vanessa Incontrada desnuda come una Belen sul calendario di Max ma sulla copertina di Vanity Fair, con tanto di predicozzo sulla causa impegnata che giustifica e desessualizza ogni nudo: «La perfezione non esiste». Oggi le statue si edificano solo per un corpo imperfetto che rappresenti adeguata risposta al bullismo, al bodyshaming, all’estetica omologata di Instagram. In altre parole, se hai e mostri un bel lato b, l’inclusione non vale, e la bellezza è un reato che va scontato finendo ad eseguire una decomposizione catalitica del perossido di idrogeno dal vivo per poi denunciare l’ecatombe americana da overdose di oppiacei ai concorsi di bellezza (true story, quella di Miss America).
Fosse stata in carne, fosse stata nera, asiatica, fosse stata drappeggiata con una bandiera arcobaleno, o uscita da un velo islamico made in Kabul, insomma le fosse tremato il cuore di bronzo per una buona causa mostrando almeno due etti di smagliature su quel lato b per la bellezza autentica e i diritti delle contadine dell’ottocento chi avrebbe detto bah?
Statue curvy e muse di Gucci
Un anno fa a Savona, tra Mercato Civico e parcheggio dell’Arsenale, è stata inaugurata l’installazione “Curvy on the beach – Bellezze… a tutto tondo”. Il team di sette ceramiste aveva modellato con 600 chili di creta tre allegre donne corpulente in costume da bagno intente a fare un pic nic e spalmarsi la crema, una di queste a pancia in giù, culotte tornite al vento. Successe qualcosa? Certo, rubarono il chinotto! Proprio così, «a dimostrazione della tematica scomoda» l’opera piazzata nei Giardini d’artista per sensibilizzare al body shaming era stata deturpata dai vandali che si fregarono la bottiglia di chinotto di creta del pic nic.
Dopo di che, messo qualche decennio tra noi e poetica del Mercantini abbiamo dovuto misurarci con la rivoluzione della bellezza, il fenotipo armeno come risposta al bungabunghismo berlusconiano, le modelle del sapone Dove alle supertop degli anni Novanta, le muse di Gucci alle Venere di Milo e sorelle. Risultato? Nel mondo tuttibelli e tuttifludi e tuttimpegnati non c’è posto per un corpo che non sia iconico della “vittima di body shaming”, “volto della diversity”, “simbolo dell’inclusione e della body positivity”, che “sfida gli standard”, “bersaglio degli haters” e della “cultura dello hate sharing”, non c’è posto per una revisione tonica delle spigolatrici di Sapri e nemmeno per il lato b. Che se ben scolpito nel bronzo non può che etichettarsi “sessualizzato”.
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