
Patrizia Valduga ritorna con il “Libro delle Laudi”
Dopo Lezioni d’amore del 2004, Patrizia Valduga si rilancia in poesia con Libro delle laudi (Einaudi, pp. 61, 8,50 euro). Non ne trattava da quell’anno feroce in cui è morto il marito Giovanni Raboni, poeta che ha fatto grande Milano e la letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni. Valduga non può fare a meno, in questa sede, di fare i conti con la scomparsa, impellente e temuta, del marito. E lo fa ricorrendo alle armi di cui, prima di lei, già si vestirono i grandi cantori della cristianità medievale, in particolare San Francesco e Jacopone da Todi.
Sulle pagine della breve raccolta – quarantacinque poesie – predomina il bianco del foglio sull’inchiostro. Pochi distici, inframmezzati da molti spazi bianchi, che spesso superano la misura dell’endecasillabo ma non hanno un metro canonico. Ricordano il Cantico delle creature di San Francesco perché il ritmo predomina sul verso, puntando accenti e cesure in posizioni non canoniche ma neppure casuali: «Mio Dio, mio Dio, Signore dell’amore, / leva la notte agli occhi del mio amore». Le rime servono da collante tra i versi finali dei distici di una sola poesia: «Tu ci sei, Giovanni, e non ci sei, / e mi tieni davanti alla paura. / Non posso più scappare da me stessa: / mi scova ovunque la tua luce pura».
Uno stile non sperimentale, quindi. Un ritorno all’ordine al quale molta poesia contemporanea, dal Gruppo 63 in poi, ci aveva da tempo disilluso. Invece, il vecchio viene riscoperto nella nuova luce di un dolore che trapassa le generazioni: quello della morte. E lo strumento lirico degli avi sembra il migliore per raccontare qualcosa che, invece, è personale. Tanto più che Patrizia Valduga ha deciso di far sue le figure retoriche più semplici, comuni, quasi banali, con l’intento quasi consapevole di fare, del suo dolore, un dolore collettivo e comprensibile: «Signore della morte e della vita, / nessuno più di lui merita vita. // Signore di ogni tempo e di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita».
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