Patetica Europa, per costruirti ti cancelli

Di Rodolfo Casadei
22 Luglio 2004
GIUSTO METTERE IN DISCUSSIONE IL MITO DEL PROGRESSO E LE METE TOTALITARIE, MA NON A COLPI DI RELATIVISMO, CHE è IL PEGGIORE DEI DOGMATISMI. PAROLA DI ALAIN FINKIELKRAUT

Monsieur Finkielkraut, il titolo della XXV edizione del Meeting per l’Amicizia fra i popoli di Rimini è tratto da una frase di san Bernardo: «Il nostro progresso non consiste nel presumere di essere arrivati, ma nel tendere continuamente alla meta». Troviamo qui delle parole un po’ fuori moda: progresso, meta. Perché oggi è così difficile parlare di progresso e di meta senza turbamenti?

Oggi è difficile parlare di progresso perché viviamo in un’epoca di sviluppo illimitato, e tuttavia ci siamo accorti nostro malgrado che abbiamo la necessità di porci dei limiti. L’inno della modernità era «sempre di più», il motto del mondo antico, del mondo greco, era «niente che sia eccessivo», ed è bello da ricordare, se non altro ponendo mente ad un fenomeno inquietante: l’obesità che colpisce tutte le società occidentali. Il «sempre di più» può portare veramente ad una sorta di aumento quantitativo delirante, che ci costringe a riflettere diversamente: fra il razionale ed il ragionevole s’è prodotto un divorzio crescente. Abbiamo puntato alla razionalizzazione del mondo per recare sollievo agli esseri umani, e oggi scopriamo che non sempre il razionale è ragionevole.

Viviamo in un’epoca in cui le religioni – sia quelle trascendenti che quelle secolari – con le loro mete assolute hanno perso un po’ del loro potere d’attrazione. E tuttavia in ambito politico molti soggetti credono ancora ai Grandi Fini: gli americani vogliono portare la democrazia nel mondo (soprattutto arabo), gli europei vogliono portare la pace perpetua, i No global vogliono darci un Altro mondo possibile, gli islamisti auspicano l’avvento del Califfato universale. Perché ancora tutte queste mete politiche grandiose, dopo gli orrori totalitari del XX secolo?
Credo che si debbano fare delle distinzioni: anche se tutti gli scopi di cui lei ha fatto la lista hanno in comune il fatto di essere grandiosi, non nascono dallo stesso spirito. Non è la stessa cosa volere un mondo tutto democratico e voler installare il Califfato universale. Un mondo democratico è un mondo in cui non si desidera che tutti siano sottomessi alla medesima legge. Aggiungo che la democrazia moderna non può fare a meno del riferimento all’umanità. Le democrazie antiche avevano qualcosa di autarchico, poiché gli uomini vi erano uguali in quanto cittadini, in quanto appartenenti allo stesso popolo. La democrazia moderna ha rovesciato le cose: in essa i cittadini sono uguali in quanto uomini; dunque la democrazia si chiarisce nell’orizzonte dell’umanità. La politica non si può ridurre semplicemente alla gestione degli affari della propria civitas, come si verificherebbe se gli atti di governo si collocassero solo nella dimensione nazionale: bisogna sapere cosa fare per il bene dell’umanità. Dunque non credo che la delusione nei confronti delle religioni secolari debba o possa portare a rifiutare ogni orizzonte generale, a respingere ogni responsabilità nei confronti del mondo. Il problema di fronte a cui ci troviamo lo riassumerei così: non possiamo convertire interamente il principio di speranza in principio di responsabilità, ma almeno introdurre senso di responsabilità nella nostra speranza. Che significa: vogliamo un mondo migliore, ma dobbiamo anche avere la volontà di salvaguardare il mondo; l’idea di salvaguardia deve essere contenuta nell’idea di miglioramento. A questo non eravamo preparati, ma la situazione esige ora questo da noi, ora che sappiamo che la terra non basta, per così dire, alla nostra concupiscenza. Abbiamo scoperto che il mondo e la natura non sono senza fine. Viviamo in un mondo finito, in tutti i significati del termine. Questo dovrebbe riflettersi sul nostro modo di fare politica. Io non rimprovererei agli americani al loro propensione ad estendere la democrazia al mondo intero: la loro motivazione è generosa, lo scopo necessario e il tutto è inerente al modo che gli americani hanno di concepire se stessi e la politica; li rimprovero di rifiutarsi, per esempio, di firmare i protocolli di Kyoto e dunque di credere che la democrazia coincida con l’ampliamento dell’american way of life. Ma l’american way of life condanna il mondo a morte, perciò l’esigenza democratica deve differenziarsi dalla frenesia che oggi caratterizza l’american way of life.

A proposito di scopi politici, Lei ha spesso sottolineato che le differenze di obiettivo fra l’Europa e gli Stati Uniti dipendono dal fatto che i secondi sono ancora una nazione, mentre l’Europa è sempre meno una nazione e sempre di più una società. Che cosa vuole dire?
Una nazione è un’entità politica che può porsi la questione del suo ruolo nel mondo; un sentimento morale nazionale è possibile, un sentimento morale sociale credo di no. La società è composta di individui e di gruppi che difendono ciascuno il suo interesse. Una società è destinata fatalmente a smarrire la differenza, davvero fondamentale, che c’è fra benessere e vivere bene: una società si caratterizza per l’ossessione del benessere. La dignità della politica consiste esattamente nel mantenere una distanza, uno scarto, una differenza fra il benessere ed il vivere bene. Una società è un’entità preoccupata esclusivamente del proprio funzionamento; una società è un processo vitale, ed uno dei rischi della modernità, come ha ben compreso Hannah Arendt, è di fare della vita il bene supremo, mettendolo davanti al bene del mondo; le nazioni hanno coscienza del mondo, le società riducono il mondo al mantenimento del processo vitale. E credo che questa sia la realtà che oggi caratterizza l’Europa: l’Europa non è composta di cittadini, ma di consumatori; il passaggio dall’Europa delle nazioni all’Europa post-nazionale non si traduce nella costituzione di un popolo collocato al di là delle nazioni, ma nella promozione del lavoratore e del consumatore al rango di cittadino. Infatti l’Europa si propone agli individui, offre tutta una serie di vantaggi, di piacevolezze, di beni, e così facendo dimentica tutto ciò che deve fare la dignità della politica.

L’affermazione di san Bernardo secondo cui la meta non può mai essere completamente raggiunta è certamente un baluardo contro i totalitarismi e i fanatismi, ma può anche essere il pretesto per un relativismo che spingerebbe alla pigrizia: se la Meta è sempre fuori dalla nostra portata, perché darsi da fare e discutere con chi pensa e si comporta diversamente da noi? C’è una via di mezzo fra dogmatismo e relativismo?
Sì, l’opposzione fra dogmatismo e relativismo sembra un grande problema, ma in fin dei conti possiamo dire che non c’è tutta questa opposizione fra le due cose, perché il relativismo è molto dogmatico: chi proclama che tutte le cose sono uguali è convinto di avere ragione e di possedere una verità superiore. Anche in questo caso direi che è proprio una situazione che caratterizza il nostro tempo: l’Europa pensa di aver sconfitto la tentazione nazionalista, ma non ha fatto altro che sostituire il patriottismo e lo sciovinismo fondati sullo spazio (i confini delle nazioni) con uno sciovinismo altrettanto esasperante fondato sul tempo: lo sciovinismo, l’etnocentrismo del presente, la convinzione che il nostro tempo presente sia il migliore in assoluto. Poiché proclama l’uguale dignità di tutti i gusti e di tutti i colori, poichè afferma il principio di equivalenza universale, il nostro tempo presente è privo di pregiudizi. Gli antichi greci hanno inventato la democrazia, ma da essa escludevano le donne e i metechi; noi soli sappiamo accogliere gli stranieri, riconoscere i diritti delle donne, promuovere quelli degli omosessuali, ecc. Questo nuovo patriottismo insensato ha dato un altro esempio di sé col rifiuto, da parte delle alte istanze europee, di fare riferimento a Pericle nella Costituzione: Pericle è l’antica Grecia, nell’antica Grecia c’era la schiavitù, mentre noi oggi siamo liberi. È evidente che l’Europa non può fare alcun riferimento al suo proprio passato perché si considera infinitamente superiore ad esso a motivo della sua tolleranza universale. Ma la tolleranza così concepita è dogmatismo per non dire fanatismo, e spinge il presente a chiudersi completamente su se stesso. Le mura del presente non sono mai state così alte, e noi stiamo perdendo quella grande risorsa che è stata in passato la cultura; il passato ci aiutava a prendere le distanze da noi stessi, un aiuto che il presente oggi ci rifiuta: un fatto che testimonia una presunzione, un sussiego, un’arroganza senza precedenti. Ci sono, io credo, soltanto due modi per liberarsi di questa arroganza: il primo è di riconoscere con umiltà che i testi degli antichi possono avere qualcosa da dirci, è rinunciare a collocarci in una visione lineare del progresso di cui noi conosceremmo il termine; il secondo consiste nel fissarsi un certo numero di finalità, senza avere la sicurezza di poterle raggiungere. Io credo che si possa e si debba dire contemporaneamente che l’umanità esisteva già prima che arrivassimo noi europei contemporanei e che non saremo noi a inventare l’umanità; e che d’altra parte il compito dell’emancipazione umana è ancora da portare a termine. Credo che si tratti di due obiettivi simultanei, uno volto al futuro e l’altro al passato, che possono sbloccarci dall’impasse in cui ci siamo cacciati.

In effetti il Preambolo della Costituzione europea cita Tucidide, ma non cita Pericle. E non cita nemmeno le radici giudaico-cristiane dell’Europa.
Per altre ragioni ancora, ma le due omissioni hanno in comune di essere entrambe dettate dal “politicamente corretto”, che sfocia nella cancellazione di qualunque riferimento. È il punto di arrivo di una cultura “politicamente corretta” che è una cultura del vuoto, della denuncia, del sospetto e alla fine del vuoto, perché in fin dei conti nulla conta tranne noi. Attraverso il “politicamente corretto” siamo condotti a contemplare niente altro che noi stessi nello specchio della cultura.

Nel Preambolo della nuova Costituzione europea si trova la parola “progresso” (insieme alla parola “prosperità”), ma non le parole “meta” e “origine”. Non è curioso leggere nel Preambolo che «l’Europa… intende avanzare sulla strada della civiltà, del progresso e della prosperità» senza che il testo faccia parola dell’origine e della meta di tutto questo?
È semplice, mi pare. Siamo di fronte all’ultima religione, la religione dell’umanità. Ed io penso che questa religione, fondata sull’idea che tutti gli uomini sono simili e uguali per dignità, abbia una sua nobiltà, e che tutti ne siamo condizionati. Ma essa è a sua volta sprofondata in una specie di dogmatismo. Questo culto dell’umanità sta diventando fanatismo. Ai miei occhi solo il fanatismo spiega il rifiuto di fare riferimento all’origine. L’origine, infatti, è qualcosa di particolare, di non identico a tutto il resto; e se l’Europa fa riferimento alle sue radici cristiane, agli occhi degli incensatori della religione dell’umanità essa esclude tutti quelli che non sono cristiani; ma l’esclusione è proibita dalla religione dell’umanità. Siamo messi davanti ad un’alternativa terribile: o diritti umani, o discriminazione. Tutto ciò che non è affermazione dei diritti umani, dell’uguale libertà e dignità degli esseri umani, rientra nella discriminazione. Riaffermare oggi le origini cristiane dell’Europa equivale a reintrodurre la discriminazione, a dire: «è meglio essere cristiani che qualcos’altro», e questo è inammissibile. Una tale applicazione della religione dell’umanità ha un esito paradossale e assurdo: per costruire se stessa l’Europa cancella le proprie tracce. E trovo che questo sia patetico e pateticamente stupido, della stupidità delle buone intenzioni.

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