
La preghiera del mattino
C’è un “partito della guerra” che intralcia i negoziati per la pace? Speriamo di no

Su Affaritaliani si scrive: «È possibile un accordo di pace fra Russia e Ucraina? E su quali basi? “Il crescente numero di vittime in Ucraina ha costretto il presidente Volodymyr Zelensky a considerare concessioni alla Russia per mettere fine al devastante conflitto, ma gli elementi specifici di ogni accordo di pace che potrebbe essere discusso con Mosca rimangono un mistero”, scrive il Washington Post».
Nel commento del Washington Post si legge quasi una critica a Zelensky perché sta trattando.
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Su Fanpage Tommaso Coluzzi scrive: «Gli Stati Uniti non vogliono che l’Ucraina chiuda l’accordo di pace con la Russia, dice il ministro degli Esteri del Cremlino, Sergei Lavrov. Secondo il diplomatico di Mosca, gli Usa “tengono per mano” la delegazione ucraina nei negoziati di pace con la Russia, “impedendo a Kiev di accettare le richieste minime di Mosca”. Poi Lavrov, citato dall’agenzia Interfax, ha aggiunto: “Abbiamo sempre favorito una soluzione diplomatica di ogni problema quando Zelensky propose colloqui nel pieno delle ostilità, alle quali il nostro presidente ha acconsentito. E sono così iniziati i colloqui. Questo è accaduto malgrado la delegazione ucraina abbia iniziato a prendervi parte per lo più in modo, per così dire, solo formale”».
Le posizioni di Lavrov sono naturalmente ispirate da una propaganda che deve attutire l’effetto di sacrosanta e ampia ripugnanza per l’invasione russa in Ucraina, ma sono completamente infondate?
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Sul Sussidiario Andrew Spannaus dice: «Dobbiamo decidere se vogliamo fermare la guerra o trarne beneficio a livello strategico. E anche cosa sarebbe la Russia dopo Putin, con realismo e senza illusioni».
Qualche voce di riflessione realistica emerge anche dal mondo americano.
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Su Formiche David Unger scrive: «Forse per questo Biden, dovendo dire di no alle no-fly zone e ai Mig polacchi, sente il bisogno di bilanciare altrove con una retorica bellica, come quando chiama Putin “un criminale di guerra” o avverte duramente Xi Jinping. L’escalation retorica, di per sé, può diventare un sentiero accidentato e rendere più difficile per gli Stati Uniti il raggiungimento di un compromesso diplomatico. Ma a questo punto non esiste un percorso sicuro per Biden e, almeno sul piano politico, questo imboccato appare come il più saggio».
Anche su un sito saldamente atlantista non manca qualche riflessione più approfondita.
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Su Firstonline Stefano Silvestri, consigliere scientifico e già presidente dello Iai dice: «Diventa difficile cedere per i russi. Nessuno criticherebbe gli ucraini se si arrendessero, ma Putin ha qualche difficoltà. E allora la domanda più spaventosa è: ma se non ce la fa a vincere, non è che fa qualche sciocchezza ancora più grossa?».
Cercare di ragionare sui possibili scenari futuri, è l’esigenza di fondo di chi cerca di dare uno sbocco non catastrofico all’aggressione russa all’Ucraina.
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Su Atlantico quotidiano Federico Punzi scrive: «Pericoloso per gli Stati Uniti e i loro alleati mal interpretare la posizione della Cina sul conflitto in Ucraina e illudersi che possa mutare a loro favore. Detto in termini chiari: aspettarsi che Pechino induca Putin a fermarsi o, addirittura, che possa scaricarlo. Sette ore di colloquio tra i consiglieri, mercoledì a Roma, e due ore ieri tra il presidente Biden e il presidente Xi Jinping non hanno smosso Pechino e i due governi sono rimasti sulle rispettive già note posizioni. Washington minaccia non meglio specificate “conseguenze” se la Cina aiuterà la Russia e dice di avere motivo di credere che sia pronta a farlo. Una linea rossa impegnativa. Pechino accusa Usa e Nato di aver spinto Putin alla guerra e resta alla finestra. D’altra parte, trarrebbe vantaggio sia da una vittoria della Russia, che dal suo impantanarsi in Ucraina. Ma Xi prova a dettare le sue regole anche nei rapporti bilaterali ed è sua la linea rossa su Taiwan».
Anche in un altro sito rigorosamente atlantista si invita a ragionare sui possibili esiti negativi di una politica estera americana più retorica che concreta.
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Sul Sussidiario Antonio Fanna scrive: «Un timore sta attanagliando il governo Draghi: è la sindrome dell’anello debole. La paura di essere considerato come il punto più fragile del fronte antirusso, e soprattutto l’angoscia di esserlo veramente. Più l’Italia si manifesta atlantista, anzi iperatlantista, più sente le pressioni di chi vorrebbe farla cedere. Il doppio attacco arrivato ieri da Mosca è diretto a colpire proprio questa fragilità».
Da ex saggio democristiano Lorenzo Guerini ha invitato a considerare propagandistico l’attacco che Mosca ha fatto nei suoi confronti. Peraltro la Francia tiene la sua Total in Russia e Gerhard Schröder nonostante i suoi ruoli apicali in società energetiche russe, nonostante le critiche anche di Olaf Scholz, continua a essere iscritto alla Spd, il partito del cancelliere. Mentre differenziati ambienti americani hanno impedito a Mario Draghi mosse analoghe a quelle compiute a Parigi e Berlino.
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Su Formiche Federico Di Bisceglie intervista il politologo Piero Ignazi che dice: «Non possiamo aspettarci molto altro. L’Italia non ha una tradizione di politica estera e la reputazione del nostro paese fuori dai confini è molto bassa. Non mi meraviglia che prima il presidente ucraino abbia scelto altri paesi. Certamente però mi aspettavo che l’Italia giocasse un altro ruolo in questa partita, anche sotto il profilo diplomatico».
Speriamo che adesso il fronte Mediterraneo (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) messo in piedi da Draghi ci offra qualche chance.
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Su Formiche Francesco Scisci scrive: «Allora quando Gianni Riotta fa una lista di nomi di giornalisti “filo putiniani” mette il dito su un problema vero. In una guerra contro Putin, come i partiti anche i giornali non possono fare propaganda per Putin, o se la fanno deve essere chiaro da che parte stanno. Certe ambiguità sono oggettivamente pericolose perché rischiano di trascinare il paese appunto tra i “collaborazionisti” del nemico. Riotta potrebbe avere usato parole inopportune, indelicate, gli sarà mancato esprit de finesse, oppure può essere stato finalmente chiaro. Il problema però esiste».
Scisci è perfetto nel descrivere la pochezza intellettuale di Riotta, però la sua idea di comparare il disordine internazionale in atto allo scontro tra campo liberaldemocratico e quello comunista, mi pare basata su fondamenta fragili. È possibile che nel medio periodo la Cina riesca a costruire uno schieramento alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. Ma non siamo ancora in questa situazione e, se non si blocca la riflessione “perché Putin ti ascolta”, forse riusciremo a evitare l’esito di un mondo bipolare nel quale operi uno schieramento che vada da Pechino a Mosca fino a parte rilevante dell’Asia, dell’Africa e del Medio Oriente.
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Su Strisciarossa Pietro Spataro scrive e si interroga: «Se è lecito chiedersi per quali motivi, seguendo quali passaggi storici, negli ultimi dieci anni si è arrivati a questo scontro. Se il comportamento di Kiev nei confronti delle popolazioni russofone del Donbass sia stato sempre improntato al rispetto dei diritti e abbia seguito il capitolato previsto dagli accordi di Minsk. Se è lecito chiedersi se il tentativo della Nato di creare un avamposto in Ucraina sia stata una scelta saggia o se invece non sarebbe stato meglio lavorare per garantire una neutralità che desse nello stesso tempo garanzie e sicurezza all’Occidente e all’Oriente».
Ecco una riflessione, accompagnata da una dura condanna all’invasione russa dell’Ucraina, su un sito di ex comunisti molto legati al proprio passato: putinate?
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