
Il compito di un partito conservatore in un paese mai stato conservatore

Con questa intervista a Eugenio Capozzi, ordinario di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, prosegue il dibattito sul conservatorismo in Italia iniziato ieri su Tempi da Lorenzo Castellani. Nei prossimi giorni pubblicheremo altri contributi, commenti e interviste.
Il “Natale dei conservatori” di Atreju, la festa dei giovani di Fratelli d’Italia che la scorsa settimana ha messo ancora più al centro del dibattito politico Giorgia Meloni, consegna all’Italia un tentativo coraggioso (ma molto insidioso), quello di superare sovranismo e populismo e parlare apertamente di conservatorismo. Può funzionare in un paese come l’Italia?
Una tradizione politica che manca in Italia
Tempi ne parla con Eugenio Capozzi, professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Napoli “Suor Orsola Benincasa”, studioso del conservatorismo e autore di diverse pubblicazioni sul tema. «Il fatto che il termine conservatore sia oggi al centro dell’attenzione della destra italiana è un segno di evoluzione positiva della riflessione politica in quel mondo», osserva. «È però vero che nella storia italiana il conservatorismo non ha avuto cittadinanza facile. Potremmo anzi dire che la sua cittadinanza è stata impossibile». In che senso? «Nel senso che in Italia manca una tradizione politica conservatrice, che invece troviamo in culture come quella anglosassone e francese, nelle quali c’è stata una fusione tra l’esigenza di limitare il potere dello stato e quella di difendere famiglia, proprietà, identità culturale e tradizioni».
Questa congiunzione non si è verificata in Italia principalmente per tre motivi, spiega Capozzi. «Innanzitutto perché lo stato unitario è stato frutto di una operazione rivoluzionaria, frutto di un’alleanza tra rivoluzionari democratici e moderati monarchici. Poi perché lo stato italiano è stato costruito in contrapposizione alla Chiesa e al cattolicesimo, che rappresentava l’identità religiosa del paese: questo ha prodotto una frattura interna alla società italiana che non è stata rimarginata con il Corcordato, ma soltanto parzialmente con l’ascesa al potere della Democrazia cristiana nella seconda metà del XX secolo».
«In terzo luogo, la costruzione dello stato unitario fu vista dalla classe politica del tempo come una costruzione precaria, sempre a rischio di dissoluzione: questo fece sì che essa puntasse non sul modello del self government anglosassone, caratterizzato dalla rigorosa limitazione del potere centrale in base al diritto e alle libertà, ma sul modello prefettizio napoleonico, con annesso accentramento burocratico. Ecco perché la destra italiana non si è ispirata al conservatorismo anglosassone e francese, ma ha avuto fin da subito una impostazione statalista e interventista. I liberali sono stati soprattutto fautori dello stato come motore della cittadinanza, tanto che si può dire che la teorizzazione dello stato etico di Gentile non è uno snaturamento della cultura liberale italiana, ma è uno degli esiti logici proprio di essa».
Dalla destra reazionaria a quella del berlusconismo
«Storicamente», prosegue Capozzi, «la destra italiana più che conservatrice, si scopre reazionaria di fronte alle opposizioni antisistema di cattolici, anarchici e repubblicani, e nazionalista, in una visione espansiva e retorica della nazione che confluirà nell’interventismo prima e nel fascismo poi». Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, spiega lo storico, «la destra italiana fa confluire le già minoritarie spinte conservatrici nell’anticomunismo, cioè in un fenomeno ben più vasto, che contiene ispirazioni anche molto diverse, e di cui il fascismo conquista a forza la leadership, annegando ogni velleità conservatrice in un’ideologia della modernizzazione guidata dallo Stato-partito. L’ambiguità tra reazionarismo, nazionalismo, liberalismo e conservatorismo resta per decenni a destra, attraverso il fascismo e l’epoca repubblicana, fino a che, dopo la fine della Guerra Fredda, le sua identità culturali confluiscono nella coalizione berlusconiana».
«Lì coesistono una visione non tanto conservatrice quanto semmai “modernista” del liberalismo – il nuovo miracolo italiano, la liberazione delle energie della società civile – e quella di Alleanza nazionale, più statalista e dirigista». Non a caso, osserva lo storico, «nella destra italiana dalla seconda repubblica in poi i temi classici del conservatorismo anglosassone – la convergenza tra liberalismo economico e difesa dell’identità religiosa e culturale – non sono venuti in primo piano. Nella destra italiana troviamo, anzi spesso, accanto ad un persistente mito costruttivista dello Stato, accenti laicisti e giacobini. Molto futurismo e poco tradizionalismo».
Superare il sovranismo
Vaste programme, quello iniziato da Giorgia Meloni ad Atreju, che appare però molto più di un maquillage semantico per abbandonare parole un po’ abusate come sovranismo e populismo. «Il superamento del sovranismo in favore di una nozione più storicamente consolidata come il conservatorismo è benvenuto», commenta Capozzi. «Non tanto perché “sovranismo” sia una cattiva parola, ma perché limitandosi a definirsi così si rischia di ridurre l’aspirazione della destra a una cornice più o meno nazionalista, con tratti isolazionistici: una caratterizzazione puramente in negativo rispetto alle dinamiche del mondo globalizzato. Il conservatorismo è una categoria più ampia e profonda. Però per comprendere bene le sue radici e i suoi elementi più attuali bisogna guardare soprattutto al mondo anglosassone».
Non per esterofilia, «ma perché nella tradizione della destra italiana non si ritrova quasi mai la congiunzione tra liberalismo economico e social conservatism, quello che – per sintetizzare – difende i principi non negoziabili. Una congiunzione fondamentale per dare respiro e solidità a un progetto che voglia dirsi conservatore. Nel contesto americano la troviamo sempre: c’è nel fusionismo di Reagan e poi anche nel trumpismo, c’è in Bolsonaro, c’è nel Cile di Kast. In Italia sento fare da chi vorrebbe rinnovare la destra nomi come quelli di Prezzolini e Montanelli: nomi degnissimi, ma lontani da questo orizzonte che è quello delle destre occidentali del nostro tempo».
I cattolici e il partito conservatore
La destra intenzionata a diventare conservatrice vuole parlare ai cattolici. Ed ecco i temi etici, la difesa delle radici giudaico-cristiane, anche battaglie più di “facciata” come quella sul “Buon Natale” in Europa. Basta questo? «Dopo la fine della Guerra fredda e della Democrazia cristiana è difficile oggi parlare di una presenza politica dei cattolici in quanto tali. Molte divisioni si sono approfondite con il pontificato di Bergoglio. L’aspirazione, che fu del cardinale Camillo Ruini, di una Chiesa che possa fungere da elemento di fermento della politica italiana al di là degli schieramenti si è attenuata. In questo contesto è difficile ipotizzare una presenza politica definita dei cattolici in uno schieramento conservatore, se non al limite attraverso singole figure», dice Capozzi.
«Io penso che il mondo cattolico italiano sia ormai in gran parte funzionale al mantenimento dello status quo: salvo isolate eccezioni i cattolici interni alla classe politica e dirigente sono a rimorchio del treno del dirigismo economico e del politicamente corretto. Questo non vuol dire che una federazione liberal-conservatrice non possa sposare la piattaforma dei principi non negoziabili e unirla a quella delle libertà economiche e civili. Ciò avviene già nei paesi anglosassoni o in America Latina senza che ci sia un raccordo “ufficiale” con le chiese. Sarebbe positivo che nella destra maturasse la consapevolezza dell’importanza di questo duplice binario».
La battaglia contro la identity politics
A proposito di temi etici, è legittimo il sospetto che i partiti conservatori nel mondo puntino soprattutto su queste battaglie perché su altre materie non toccano palla, un po’ per l’ingigantimento della macchina tecnocratica, che “commissaria” la politica e ha creato sempre più strutture di controllo sovranazionale, un po’ per limiti oggettivi della classe politica stessa. «Io credo che dirigismo economico e relativismo etico siano strettamente connessi», conclude Capozzi.
«Il progressismo del XXI secolo mette insieme un’idea di soggettivismo esasperato, quella che sta alla base dei desideri intesi come diritti – la identity politics – con la resa a un’economia sempre più affidata a oligopoli digitali – il cosiddetto capitalismo della sorveglianza – intrecciato al dirigismo statale. Compito di una destra conservatrice nel XXI secolo avanzato è fare proprio il valore dell’individualismo in economia ma contemporaneamente anche quello della difesa dal pensiero unico del relativismo etico, dal politicamente corretto, dall’ideologia woke: sono due elementi che si tengono l’un l’altro».
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