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Parole perse / Lavoro, quel “gesto” umano che rende denso l’istante

Di Pier Paolo Bellini
04 Marzo 2024
Oggi assistiamo al declino dell’“etica del dovere” e alla nascita dell’“etica della realizzazione di sé”. È senz’altro un progresso. Ma come ogni progresso, crea nuovi problemi
Artigiano al lavoro
Foto di Alex Gruber su Unsplash

«Lavorare stanca», diceva Pavese. Perché farlo, allora? Normalmente si lavora, e basta, pensando che dietro non ci sia un’idea. Per passione. Per necessità. O per condanna. Perché ci stanchiamo a lavorare? Per cosa?
Il lavoro non gode di buona reputazione: «Maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane» (Genesi 3,17-19). Non partiamo bene: nella tradizione ebraica il lavoro è una punizione legata a un disordine introdotto dall’uomo in ciò che prima era ordinato. Se il paradiso produceva tutto il necessario senza fatica, con l’introduzione del disordine occorre invece sudare: ecco “inventato” il lavoro.
Sull’altra sponda del Mediterraneo, in Grecia, le cose non andavano meglio: la patria della democrazia era arrivata alla conclusione che “chi lavora è servo”. Perciò, “chi è libero non lavora”. Per Aristotele, come il corpo appartiene all’anima, e la bestia all’uomo, così il se...

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