
La preghiera del mattino
E basta col paragone insensato tra cannabis e alcolici

Su Affaritaliani si scrive: «Fumata nera dall’assemblea della Lega Calcio per la scelta del nuovo presidente. A quanto si apprende ci sarebbero state 19 schede bianche e un voto per l’attuale presidente di Confindustria Carlo Bonomi».
Quel che resta della grande borghesia italiana – quella che non ha ancora ceduto il controllo di rami industriali spesso strategici a società (o Stati, come nel caso della Cina) straniere – ha sostenuto la scelta di lasciare Mario Draghi a Palazzo Chigi, invece di chiedere che dal Quirinale l’attuale presidente del Consiglio facesse da regista/garante sia della ripresa economica sia del ritorno della politica. Ora anche in episodi minori come l’elezione del presidente della Lega Calcio quel che resta della grande borghesia italiana può misurare l’affermarsi di quell’opacità del potere che un prolungato commissariamento della politica non può non provocare.
Su Huffington Post Italia Simone Fante scrive: «Negli anni Venti del Novecento l’alcol venne proibito negli Stati Uniti. Poi si accorsero che la proibizione non ne aveva ridotto la diffusione, che anzi era stata trasferita in regime di monopolio alle organizzazioni criminali. Capirono che i danni del consumo o dell’abuso di alcol non avrebbero potuto essere eliminati a suon di retate della polizia. Vennero quindi stabilite delle regole che consentissero di ridurre il consumo inconsapevole e di arginare i comportamenti che avrebbero potuto causare un danno agli altri, come guidare ubriachi. L’alcol venne reso di nuovo legale in una cornice di regole».
Comparare l’alcol, così intrinsecamente legato alla civiltà occidentale da millenni, al consumo di droghe leggere che si diffondono in Europa e Stati Uniti solo negli anni Sessanta del Novecento, è una forzatura insensata. Così come sostenere che chi assume droghe leggere poi insieme non beva. Il tutto mentre, con molte ragioni, si cerca di favorire la scelta di cessare di fumare tabacco, un consumo diffusosi dal Seicento. In un mondo sempre più alla rovescia l’uso di argomenti razionali per difendere le proprie opinioni è un fatto assolutamente desueto.
Su Affaritaliani si riporta questa farse di Giorgia Meloni: «Per me è un problema nelle questioni di merito. Noi sosteniamo delle tesi che sono, nella gran parte dei casi, visioni opposte a quelle della sinistra. Mica è un fatto di antipatia personale, non è che non vado al governo col Pd perché mi sta antipatico Enrico Letta, non vado al governo col Pd perché ritengo che il Pd abbia una visione diametralmente opposta o molto diversa dalla mia. Se poi alla fine non si riescono a portare avanti queste questioni diventa un problema di cosa intendi quando dici che rappresenti il centrodestra».
La Meloni dovrebbe rendersi conto che la pura propaganda non è sufficiente per conquistare un destino politico di primo piano. Né la pandemia né l’attuazione degli investimenti del Pnrr sono un’emergenza inventata. È evidente come in Italia ci sia bisogno di un ritorno a una politica legittimata dagli elettori, però questo richiede di sostenere (magari anche dall’opposizione) un percorso che faccia i conti con la realtà. Arrivare al voto anticipato deve essere un obiettivo politico da costruire, non uno slogan da sventolare.
Su Strisciarossa Roberto Roscani scrive: «E torniamo al cuore del problema: rebus sic stantibus nessuna legge elettorale affronta e risolve la crisi della politica e la fragilità della democrazia. La legge elettorale, comunque, alla fine sarà cambiata e dovendo fare una scelta credo che quella che ci farebbe fare un passo avanti sia il doppio turno di collegio. La legge “francese” infatti permette di esprimere due voti in due momenti diversi. Il primo esprime certamente appartenenza e adesione al singolo partito, il secondo manda in Parlamento chi si avvicina di più ai propri desideri o che magari contrasta meglio chi non si vuole far vincere».
Le considerazioni di Roscani sono di buon senso e partono da una fondamentale premessa: la crisi dello Stato in Italia non dipende dalla legge elettorale ma dal non essere riusciti a sostituire la Repubblica dei partiti con quella delle istituzioni. Molto sensato è anche l’appello a non disperdere l’effetto maggioritario che dà un’ottima prova di sé nei Comuni e nelle Regioni. La scelta “francese” però di fatto funziona a livello nazionale solo con un assetto presidenzialista. Essendo molto complicato l’obiettivo di mettere mano a riforme costituzionali nell’attuale clima politico, perché non puntare su scelte più semplici (bene diceva Guglielmo di Occam: «Frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora», è inutile fare con più ciò che si può fare con meno) come il collegio uninominale o il premio di maggioranza alla greca, cioè un premio alla prima lista sopra il 30 per cento?
Su Formiche Corrado Ocone scrive: «Gli obiettivi che a Draghi erano stati assegnati erano essenzialmente due: rendere efficace la politica di lotta alla pandemia, con un’organizzazione e una gestione dei vaccini non estemporanea; presentare a Bruxelles dei piani ben scritti, creando anche le condizioni affinché essi non restassero sulla carta ma fossero attuati, per permettere all’Italia di accedere ai crediti condizionati che le erano stati assegnati (sia a debito sia a “fondo perduto”)».
Ocone inquadra bene il perimetro definito dalla scelta d’emergenza fatta da Sergio Mattarella nel 2021 di chiedere al Parlamento di nominare non un premier espressione di un accordo politico, ma “anormalmente” super partes. Come è evidente questa è una forzatura che ha una sua unica ragione: l’emergenza. Ma le emergenze in una democrazia liberale devono avere una data di scadenza, non si può procedere a lungo su questa strada, o alle forzature seguiranno forzature: il che tra l’altro è già subito avvenuto rieleggendo Mattarella.
Su Atlantico quotidiano Federico Punzi scrive sull’accusa agli organizzatori della campagna presidenziale di Hillary Clinton di avere costruito false prove sul rapport russi-Donald Trump: «Qual è stata la reazione dei media liberal Usa alla nuova istanza depositata da Durham: silenzio, inizialmente. Zero copertura in prime time sui principali network tv. Solo quando la bomba è esplosa sui media conservatori e sui social, New York Times e Washington Post sono corsi ai ripari cercando di screditare l’inchiesta, facendo la figura dei faziosi quali sono».
Trump è senza dubbio andato fuori di brocca non accettando la rielezione di Joe Biden, questa certamente facilitata da un voto “per posta” che nelle dimensioni in cui si è espresso pone qualche problema di regole democratiche, ma assolutamente legittima. Però è difficile sottovalutare gli effetti psicologici che il trattamento che settori dei democratici coordinati con settori del deep State e coperti dai media mainstream hanno riservato a un presidente già così debole per cultura politica.
Su Dagospia si riporta un articolo di Alessandra Arachi sul Corriere della Sera nel quale si scrive: «La Corte costituzionale respinge il referendum sull’eutanasia legale. La Consulta ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».
Che i difensori della “Costituzione più bella del mondo”, non si curino della contraddizione tra un quesito referendario e la lettera e il senso delle norme costituzionali sulla tutela della vita umana può avvenire solo nell’Italia allo sbando di questi nostri tempi.
Su Startmag Francesco Damato scrive: «Un bilancio geograficamente più completo e sommario, esteso alle edizioni non milanesi di “Mani pulite”, sempre con la maiuscola per me immeritata assegnatasi dagli inquirenti, si trova sulla prima pagina del Mattino: 4.500 indagati, di cui 1.200 condannati, meno dei 1.408 risultati a Milano e dintorni. Ebbene, 4.500 meno 1.200 fanno 3.300 fra assolti, prescritti, morti e dispersi: più della metà. Voi pensate che con questi numeri, dichiaratamente approssimativi anche per chi li ha dati, si possano celebrare come una festa i trent’anni che dopodomani saranno trascorsi dall’arresto di Mario Chiesa a Milano in flagranza di mazzette? E liquidare come bazzecola tutto quello che ha accompagnato e ha prodotto quella specie di rivoluzione, doverosamente minuscola, compreso il rovesciamento dei rapporti fra politica e giustizia, cioè l’assoggettamento della prima alla seconda? Che si è arroccata nelle nuove prerogative che ha strappato ad un Parlamento intimidito o ha preso da sola, pronta a tenersele ben strette anche se nei referendum in arrivo sulla giustizia gli elettori dovessero toglierne qualcuna, sostituendosi alle Camere ancora sottomesse».
Che aggiungere di più?
Sul Sussdiario Guido Gentili dice: «I compromessi dovranno comunque essere fatti perché la maggioranza è ampia e con sensibilità diverse al suo interno. Senza dimenticare che siamo nell’anno che precede le elezioni. Draghi ha fatto però capire di non essere disponibile a mettere la sua firma, la sua faccia, su compromessi eccessivamente al ribasso».
Come al solito Gentili dice cose sensate e intelligenti. Ma la questione su cui ci si deve concentrare è: quanto a lungo può durare un governo di compromessi, privo di una vera alleanza politica sia pure di unità nazionale, e sorretto da un Parlamento chiaramente allo sbando?
Su Affaritaliani si registra questa affermazione di Giuseppe Conte: «“La posizione del Movimento 5 stelle sui referendum? Ne discuteremo in riunione e mi piacerebbe far votare gli iscritti sui temi in oggetto”, così il presidente del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte all’arrivo alla Camera per la riunione congiunta dei parlamentari M5s».
Ci si può affidare nell’affrontare una questione di evidente rilevo costituzionale, a uno che non è neanche capace di capire lo statuto del movimento di cui sarebbe leader?
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