Papa Francesco e la pietra su cui è fondata la nostra fede

Di Roberto Colombo
26 Aprile 2025
Anche oggi, due millenni dopo la prima e unica Pasqua, Cristo risorto non sarebbe al centro dell’annuncio della Chiesa al mondo senza la testimonianza di Pietro
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Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata da don Roberto Colombo, accademico pontificio, durante la Messa in suffragio di papa Francesco celebrata nel Duomo di Monza mercoledì 23 aprile.

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In questi giorni dell’Ottava ripetiamo anche noi, nella liturgia, quanto dicevano gli undici apostoli e i discepoli che erano rimasti con loro a Gerusalemme dopo la Pasqua: «Surréxit Dóminus vere, et appáruit Simóni»; davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone (Lc 24,34). All’alba di lunedì il Risorto è apparso anche agli occhi di papa Francesco e gli ha sussurrato: «Vieni e seguimi» (Mc 10,21) nel Regno eterno di Dio. E così è stato. Continuiamo la preghiera per lui, come ci ha sempre chiesto: «Per favore, non dimenticatevi di pregare per me».

Jorge Mario Bergoglio ha seguito Gesù con una dedizione incondizionata a Lui, come Pietro. Lo ha fatto da battezzato, da prete, da vescovo. Infine da papa. Così, per dire di Francesco parliamo di Pietro, della “pietra” che sola dà solido valore ad ogni pontificato, e non ci uniamo al coro dei tifosi di maniera né al vociare dei critici impietosi che si contendono il palcoscenico di questi giorni. Ai primi si addice l’antico detto “laudibus extollere adfligit et laudatorem et laudatum” (esagerare con gli elogi umilia sia chi loda che chi viene lodato). I secondi non dimentichino che “de mortuis nihil nisi bonum” (dei morti niente si dica se non il bene [da loro compiuto]).

La persona di Simon Pietro è indissolubilmente legata alla risurrezione di Cristo e la risurrezione del Signore è storicamente inseparabile dalla figura del primo apostolo. Anche ora, due millenni dopo la prima e unica Pasqua, Cristo risorto non sarebbe al centro della fede e dell’annuncio della Chiesa al mondo senza la testimonianza oculare del pescatore di Cafarnao. Non uno scriba, un dottore della legge, un raffinato teologo del tempio. Nulla di questo. Ma un certo Simone, figlio di Giovanni e fratello di Andrea.

Uno sconosciuto, originario di Betsaida, estraneo a Gerusalemme e alla sua élite religiosa, è entrato nella storia della salvezza, nella storia della Chiesa. Un galileo un po’ rozzo nelle maniere (si trovava a suo agio nel maneggiare anche la spada; cfr Gv 18,10), contestatore aperto di alcune affermazioni e gesti di Gesù (e per questo da Lui rimproverato con l’appellativo di “satana”; cfr Mc 8,31-33), ritroso nel compromettersi nello scontro tra Gesù e il potere mondano (cfr Gv 18,15-18.25-27), eppure portato a commuoversi al pari di un bambino (come gli uomini forti, Pietro ha pianto in segreto sul proprio peccato; cfr Lc 22,62) e, soprattutto, capace di amare sconfinatamente Gesù: «Signore, tu sai che io ti amo» (Gv 21,15-17).

Ogni papa porta con sé sulla cattedra di Pietro alcuni di questi limiti e pregi umani dell’Apostolo, che si uniscono alla grazia di Dio nel forgiare il suo pontificato. Non è necessario né opportuno evocarli in quella sorta di autopsia spirituale e pastorale che riempie freneticamente gli spazi massmediatici di queste ore con voci e penne indiscrete. Sono impressi nella nostra memoria. È quanto basta.

Il lavoro dei collaboratori di questo papa è stato bello, appassionante, ma non facile. Francesco ha rivoluzionato il metodo più che la sostanza, i tempi prima dei modi, la comunicazione rispetto alla documentazione, la comprensione davanti alla precisione.

Questa sera abbiamo il cuore pieno di tristezza, ma anche di gioiosa speranza e di profonda gratitudine per il 265esimo successore di Pietro. Il Signore risorto si rende presente e i nostri occhi lo riconosceranno allo spezzare del pane eucaristico – come abbiamo ascoltato dal capitolo 24 del Vangelo di Luca – perché la nostra fede non è precariamente appoggiata su fragili sentimenti e labili emozioni, ma tenacemente fondata su una pietra, una roccia che è stata posta da Cristo stesso, fino alla consumazione dei secoli: il primo Pietro, il Pietro che ha concluso il suo ministero sulla terra ieri l’altro, e un altro Pietro che ci sarà donato tra non molto tempo, per confermarci nella fede.

Non siamo convenuti qui solo per una simpatia verso un uomo venuto da lontano che ha saputo subito conquistarla con le sue parole e i suoi gesti sorprendenti. Di queste parole che stupiscono e di questi gesti inattesi siamo stati testimoni anche noi monzesi durante la sua indimenticata celebrazione al Parco nel 2017. Sì: è stato facile volere bene a un papa come Francesco, anche quando ci ha sferzati per correggerci e scossi per svegliarci dal sonno della coscienza. Ma non è questa la ragione profonda della nostra presenza silenziosa e orante, qui. E non lo è neppure una cortesia ecclesiale, un galateo cristiano che vuole che si preghi per ogni defunto, vicino o lontano che sia dalla nostra mente e dal nostro cuore, per il solo fatto che le persone che ti sono accanto fanno anch’esse questo. Per un papa non è così: non si prega per una devozione, un adempimento formale o un trasporto spirituale, che possono essere presenti o mancare in noi. Per il papa si prega anzitutto per una concezione genuina della fede cattolica che riconosce in lui l’unità della Chiesa in Cristo, con Cristo e per Cristo.

Se la vostra pazienza me lo consente – vi chiedo scusa per questo addendum – vorrei chiudere con le lapidarie e asciutte parole di sant’Ambrogio (a Monza siamo romani di rito, ma ambrosiani di cultura) a commento del Salmo 40 [41]: «Ubi ergo Petrus, ibi Ecclesia: ubi Ecclesia, ibi nulla mors, sed vita aeterna» (S. Ambrosii, Enarr. in XII psalmos davidicos, PL 14, 1134). Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa: dove c’è la Chiesa non c’è più la morte, ma la vita eterna. La seconda parte della frase, spesso dimenticata nelle citazioni, ci dice che la fine della vita terrena di Francesco è stato il fine, lo scopo di tutto il suo ministero petrino, la missione suprema della Chiesa a lui affidata: offrire al mondo dominato dalla violenza e dalla morte l’unica vita che non tramonta, la Pasqua eterna.

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