Pance e neonati non sono merce

Di Caterina Giojelli
11 Ottobre 2016
«No all’utero in affitto. No alle “operaie della gravidanza”». Parla Daniela Danna, promotrice dell'appello di cinquanta donne omosessuali contro la maternità surrogata

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

Rifiutano «la mercificazione delle capacità riproduttive delle donne» e «la mercificazione dei bambini», chiedono a tutti i paesi «di mantenere la norma di elementare buon senso per cui la madre legale è colei che ha partorito e non la firmataria di un contratto né l’origine dell’ovocita» e «di rispettare le convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino di cui sono firmatari e di opporsi fermamente a tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata sul piano nazionale e internazionale, abolendo le (poche) leggi che l’hanno introdotta». È un appello breve, incisivo, che non si presta ad interpretazioni e manomissioni quello contenuto nel documento “Lesbiche contro la Gpa. Nessun regolamento sul corpo delle donne” firmato da cinquanta lesbiche italiane e sostenuto, fra gli altri, da Aurelio Mancuso, presidente Equality Italia, Gianpaolo Silvestri, fondatore di Arcigay, e note femministe di fama internazionale come Silvia Federici, Ariel Salleh e Barbara Katz Rothman.
Ed è anche il primo appello che manifesta la durissima presa di posizione da parte di donne omosessuali sull’utero in affitto in un momento in cui, sulla scorta del ricorso alla Gpa da parte di attivisti come Nichi Vendola e Sergio Lo Giudice, l’intera comunità Lgbt sembra militare sotto le bandiere del presunto “dono” dovuto alla grande generosità femminile e avallare così il commercio di bambini.

«Non è così – spiega a Tempi Daniela Danna, sociologa e ricercatrice dell’Università di Milano, tra le promotrici dell’iniziativa –. Scoppiato il “caso Vendola” è sembrato che l’intero movimento Lgbt, che era sceso in piazza per appoggiare il ddl Cirinnà sulle unioni civili, rivendicasse l’omogenitorialità come un diritto, un diritto peraltro riservato solo a chi può permetterselo. Io ho partecipato alla mobilitazione #SvegliaItalia prima che venisse approvata la legge, e non ho mai sostenuto la scelta di Vendola, che ha implicazioni etiche molto più complicate rispetto a dire che “anche i gay possono essere dei buoni genitori”. I gay possono essere genitori buoni e cattivi quanto tutti gli altri, ma in quanto donne il modo attraverso il quale una coppia gay arriva ad allevare un bambino non ci è indifferente. Per questo siamo volute intervenire nel dibattito, cercando fin dall’inizio dell’estate un numero di firme che ci permettesse di presentarci come una forza collettiva e aprire un confronto all’interno del movimento». Un confronto fino a poche settimane fa quasi impossibile visti i numerosi episodi di censura operati dalla comunità gay arrivata a tacciare di omofobia chiunque tra i movimenti e le associazioni femministe osasse pronunciarsi contro. La stessa Danna – mentre fioccavano le accuse a Marina Terragni, rea di aver dato alle stampe il coraggioso Temporary Mother. Utero in affitto e mercato dei figli, e Monica Ricci Sargentini, autrice dei reportage sul business della surrogacy in California e in Italia – si è vista annullare all’ultimo minuto a Udine da Arcilesbica la presentazione annunciata da mesi del suo Contract Children: questioning surrogacy, un libro contenente una corposa ricerca sullo stato giuridico della surrogazione e le operazioni commerciali che attraverso questa pratica hanno trasformato la maternità in un lavoro a pagamento.

Professoressa Danna, contro cosa si scagliano le firmatarie dell’appello?
È un testo contrario ai contratti e agli scambi di denaro per comprare e vendere esseri umani, ma anche contro tutti i regolamenti che introdurrebbero la Gpa, e che sono visti, specialmente a sinistra, come un rimedio alla “brutalità” dell’istituto del contratto. Da più parti infatti si invocano oggi regolamenti necessari a tutelare le donne per garantire che non vi sia uno sfruttamento del loro corpo. Ciò è per noi impossibile: non solo non vogliamo l’utero in affitto ma nemmeno regolamenti che mascherino, camuffandolo come un dono, il commercio dei bambini. Mi riferisco a quello che accade in Canada, Gran Bretagna e Grecia, dove la maternità surrogata è stata sdoganata e legalizzata in forma “altruistica”, ma che attraverso grandi somme di denaro elargite per retribuire i nove mesi di gestazione ha trasformato le donne in vere e proprie “operaie della gravidanza”. Per questa affermazione, durante una recente trasmissione televisiva, sono stata accusata da un esponente delle Famiglie Arcobaleno di insultare le donne: io non insulto nessuno. Operaio non è un insulto, è una persona che fa il suo mestiere e lo fa per soldi, che gli piaccia o meno. Se una donna prende dei soldi per poter terminare una gravidanza e consegnare un bambino come fosse un prodotto, questo diventa un lavoro e io trovo aberrante accettare che ciò debba essere ammesso ai sensi del diritto del lavoro e delle leggi sul lavoro. Così come trovo aberrante l’idea che queste donne, in virtù di un contratto, o del verdetto di un tribunale, persino nei paesi in cui è legale la Gpa altruistica, possano vedersi portare via i bambini anche se cambiano idea.

Pochi giorni fa è nata a Bruxelles una coalizione internazionale per una Gpa etica: è stato presentato un documento di sintesi dei parametri per il ricorso alla gestazione per altri da parte di aspiranti genitori sottoscritto da associazioni internazionali come l’americana Men Having Babies o le nostrane Associazione Luca Coscioni e Famiglie Arcobaleno.
E questo per noi è una cosa inaccettabile: in questa dichiarazione non è prevista da nessuna parte la possibilità che una donna cambi idea sulla consegna del neonato, diventando di fatto un’operaia della gravidanza. Lo sa cosa accade in Israele? Per non cambiare idea le surrogate, appena sentono muoversi il feto, non si toccano più la pancia: questo fa parte della loro professionalità di “lavoratrici”. Aggiungo un altro dato: in Grecia, dove appunto esiste la maternità altruistica autorizzata dai tribunali, è stata condotta una ricerca considerando alcune centinaia di casi giudiziari; nel 54 per cento dei casi le cosiddette “migliori amiche” delle donne che avevano bisogno di un utero per portare avanti la gravidanza, erano straniere e provenivano dall’Est Europa. Erano cioè donne emigrate: fatto il regolamento, trovato l’inganno. Queste cose nel nostro paese non succedono perché non esiste un quadro giuridico che dia la possibilità di concepire la gestazione per conto terzi e questo vogliamo mantenerlo.

Quali reazioni ha suscitato l’appello?
Gli insulti si sono sprecati; posto che ritengo vi siano ambiti in cui discuterne più seriamente e a mente lucida, il tenore delle critiche che hanno travolto i social network è stato: dovevate stare zitte. Noi non stiamo più zitte, in realtà molte di noi non lo sono mai state, ma oggi che abbiamo trovato una forza collettiva vogliamo dimostrare che il movimento non è appiattito su quella che è una rivendicazione assurda, perché non esiste un diritto alla genitorialità. C’è un diritto a candidarsi per un’adozione, e a mio parere è su questo che il movimento dovrebbe rivendicare qualcosa, ma non esiste alcun diritto di avere un figlio sul corpo di una donna che, nel quadro giuridico che appare da questa dichiarazione di Bruxelles, una volta che firma il contratto diventa una specie di macchina per fare bambini. In quanto donne, lo troviamo inaccettabile.

Possiamo dire che fino ad oggi c’è stata una sorta di subalternità delle lesbiche ai gay nel dibattito sulla Gpa?
È un grande tema. Parlo personalmente, sono una ricercatrice di professione, ho scritto libri, penso di sapere di queste cose più di altri: un conto sono le esperienze personali, un conto è avere conoscenza e un quadro generale di quello che succede in tutti i paesi dove la Gpa è legale. Il fatto di non essere stata considerata una fonte autorevole nel dibattito mi ha fatto molto arrabbiare. Ora che abbiamo preso una posizione e che l’appello ha avuto grande eco in Italia mi auguro che le voci contrarie alla surrogacy non siano più censurate nel movimento. Quanto al discorso sulla subalternità delle lesbiche ai gay devo darle ragione: in quanto donne dobbiamo preoccuparci di come la società considera la maternità. Questo non significa che tutte le donne devono diventare madri: significa che io come donna, che non sono madre, sono però coinvolta nella definizione sociale della maternità perché questa è una mia potenzialità. Anche se non la realizzo. Per questo il fatto che si richieda da alcune parti del movimento l’introduzione di regolamenti o leggi che rendono una parte delle donne fattrici per altri è totalmente inaccettabile. Noi difendiamo il principio dell’autodeterminazione delle donne, che non è quello di firmare un contratto e poi non potersi più separare da un neonato se si cambia idea.

Lei è stata socia di Famiglie Arcobaleno, cosa è successo poi?
Tecnicamente sono ancora membro dell’associazione, non ho ricevuto alcun ammonimento o provvedimento contrario. Il contrasto con Famiglie Arcobaleno è nato sulla Gpa, l’associazione ha una visione secondo la quale la parità fra i sessi debba necessariamente portare a un parallelismo nelle vicende della procreazione, cosa impossibile perché una coppia di madri non è uguale a una coppia di padri: un uomo, e questo è un fatto, non può portare avanti una gravidanza, il suo accesso alla genitorialità deve passare necessariamente dalla relazione con una donna. Accade quindi che qualche anno fa, su incarico dell’associazione, io come ricercatrice insieme a un gruppo di psicologhe e avvocate, abbiamo elaborato una proposta di Carta etica da discutere in assemblea. Il senso della proposta era di dare un suggerimento di autoregolazione etica all’interno delle coppie, considerando che i rapporti possono incrinarsi: le Famiglie Arcobaleno si mostrano sempre felicissime e mostrano con orgoglio i risultati che hanno ottenuto, ma è impensabile che vada sempre tutto bene. Mi spiego, gli uomini che pubblicizzano il loro ricorso alla Gpa sono stati fortunati a non avere incontrato donne che hanno cambiato idea e che hanno voluto rimanere in contatto con i figli. Penso anzi di poter generalizzare affermando che in tutte le situazioni di maternità surrogata le donne vogliono rimanere in contatto con i propri figli, il punto è che tali donne non hanno alcun tipo di diritto rispetto a questa loro facoltà: essa è prerogativa dei genitori committenti che, laddove è ammessa la surrogacy, diventano anche genitori legalmente e non hanno alcun obbligo nei confronti delle surrogate. Accade quindi che nei casi di coppie eterosessuali, i “committenti” spesso spariscano, non avendo bisogno di una “seconda madre” in famiglia. Nel caso di coppie gay invece i genitori agevolano la relazione con la surrogata perché costretti necessariamente a “riempire un vuoto”: per questo molte donne preferiscono avere una relazione contrattuale con i gay, sanno che così non verranno cancellate. Ora, da un punto di vista etico il nostro gruppo chiedeva che non fosse ammesso l’istituto del contratto perché una donna non poteva essere obbligata a consegnare un neonato come fosse un prodotto e non poteva avere obblighi in questo senso. Alcuni esponenti dell’associazione rifiutarono di discutere questo punto, e da lì cominciarono le intimidazioni, gli insulti perché non si parlasse in termini critici di quello che all’epoca avevano fatto solo poche coppie e che oggi è diventata una battaglia per il diritto all’omogenitorialità. Una battaglia peraltro elitaria, le cifre in ballo si aggirano sempre intorno ai 100 mila euro: cosa vogliamo garantire, un diritto all’omogenitorialità ai ricchi?

Molti ravvisano anche al di fuori della comunità gay una sorta di ordine a tacere sul tema in nome della correttezza politica. È d’accordo, e se sì, da parte di chi, non essendo peraltro la Gpa una tematica prettamente Lgbt?
La maternità è solo un altro ambito in cui si è insinuata la logica del mercato e c’è chi approfitta, nel senso etimologico della parola, trae profitto dalle nascite e dalle modalità tecniche che le realizzano. Penso alle cliniche, ai medici deputati alle inseminazioni artificiali, fecondazioni assistite, somministrazioni ormonali, agli avvocati che stilano contratti, alle agenzie che procacciano le cosiddette “portatrici” convincendo le donne a diventare surrogate e giocando sulla mistica della maternità altruistica: tu, donna, ti puoi realizzare diventando madre per altri e compiere un “estremo atto di generosità” con un modesto rimborso spese. Un invito spesso rivolto a donne disoccupate che garantisce loro un buon tenore di vita nei mesi di gravidanza. È questo che accade quando la compravendita investe l’ambito della vita umana, le donne diventano operaie della gravidanza, i bambini vengono venduti al mercato.

Foto Ansa

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