Palamara. Confessioni di una toga pericolosa

Di Luigi Amicone
17 Febbraio 2021
L’ex magistrato più potente d’Italia vuota il sacco su lotte di potere, porcherie e battaglie ideologiche della sua corporazione. Ora gli aedi della legalità-tà-tà dovranno smentire con altrettanta precisione (sempre che ci riescano)

«Cupola». «Pizzini». «Killer». Siamo in un faldone del pm Di Matteo? In un provvedimento del procuratore Gratteri? No. Siamo nel libro-intervista di Alessandro Sallusti a Luca Palamara Il Sistema. Potere, Politica, Affari: storia segreta della magistratura italiana. Descrivono un clima. Niente a che vedere con le gioiellerie per le mani pulite che si leggono in certe narrazioni di «giornalisti che erano e sono diventati aggiunti dei procuratori aggiunti» (Lodovico Festa). Anzi. Un clima piuttosto bruttino. E direi anche piuttosto al veleno di crotalo. Quasi che una procura giudiziaria fosse il peggior posto di lavoro. 

Sono dinamiche vissute in prima persona e raccontate da Luca Palamara. Ex magistrato, ex pm, ex primo della classe nel regno della legalità-tà-tà. E mai prima d’oggi filtrate all’esterno con tanta vivacità, franchezza, luci, ombre, protagonisti. Tutto vividamente tinteggiato grazie alla gran penna senza sbavature intimistico-sentimentali di Sallusti. Però quei termini, che ormai sanno di petulante cinema Piovra 14 o Andrea Camilleri 21, sono forse un po’ esagerati per tradurre cordate politiche, tradimenti, soffiate, cinismo, ruffiani, soldi, carriere, sesso. In una parola: Potere. Il più terribile.

Poiché non siamo in un posto di lavoro qualunque. Siamo nel posto dei Migliori. O presunti tali. Dove si produce legalità e non si ammazza il porco solo quando viene Natale. Si ammazza tutti i giorni. Metaforicamente e non metaforicamente parlando. In particolare, e da molto tempo a questa parte, si ammazza il politico (non necessariamente inteso come individuo) un giorno sì e l’altro pure. E questo il giornalismo privilegiato con passaporto aggiunto dell’aggiunto lo sa. Da tanto, tanto tempo. Da così tanto che il giornalismo è invecchiato nei cassetti delle procure e ha messo il capello bianco assieme a Marco Travaglio. Potere sopraelevato a tutti gli altri. E che, non rispondendo a nessuno della propria attività, se non come vedremo, a un organo di autocontrollo controllato da chi nomina i controllori, stai attento tu individuo isolato e magari di parte sbagliata. 

Siamo nella “confessione” del magistrato (fino a sei mesi fa) più potente d’Italia. Che in quasi trecento pagine fitte di nomi, cognomi e situazioni ben circostanziate, fa il quadro di un “sistema” che governerebbe l’ordine giudiziario italiano. Con tutte le conseguenze del caso che si possono immaginare. 

Roma no, non si può

Vero che potrebbe sembrare la scoperta dell’acqua calda. Ma insomma: leggere che l’ex presidente dell’Anm, ex consigliere Csm, il re delle tessere sindacali e del sindacato della magistratura più numeroso e influente, il regista di tutte le partite che per oltre un decennio si sono giocate per conquistare posti chiave del potere giudiziario e condizionare la vita politica italiana, non solo dice le stesse identiche cose che da sempre dice Silvio Berlusconi, ma aggiunge parecchio del suo, con accenti linguistici che richiamano associazioni di stampo mafioso, beh, è una sorpresa copernicana. 

Per adesso lo hanno “solo” liquidato dalla magistratura senza neanche aspettare l’esito di un processo che lo vede accusato di corruzione. «Rimozione dall’ordine giudiziario. Si chiude così – scriverà Repubblica, 9 ottobre 2020, quotidiano che non è ancora riuscito a recensire le “confessioni” del radiato – con la pena più alta possibile la carriera di magistrato di Luca Palamara. Che torna un cittadino come tutti gli altri, dopo essere stato ex pubblico ministero a Reggio Calabria e a Roma, ex presidente dell’Anm, ex consigliere del Csm, ex dominus della corrente centrista di Unicost». Insomma, un morto che parla. Dunque è solo per questa sua condizione di non aver più nulla da perdere, se non l’onore della verità, che Palamara si confida con Sallusti e trascina con sé quelli che ritiene essere i suoi complici fino a sei mesi fa? Ovvio che la risposta è compresa nella domanda. 

Strano che, improvvisamente, il potente magistrato finisca inquisito per una poltroncina alla procura di Gela che un arrestato per altre vicende dice agli investigatori: «Mi pare di aver sentito che se l’è venduta per 40 mila euro un certo Palamara». Accusa che in seguito cadrà ma che intanto giustifica l’inoculazione del trojan che intercetta tutta la sua vita. Compresa la serata all’Hotel Champagne in compagnia di deputati renziani. Serata dove uno dei temi sono le poltrone di Roma e di Perugia. E dove naturalmente le intercettazioni non si fermano anche se la legge vieta di carpire i dialoghi di parlamentari senza l’autorizzazione delle rispettive camere di appartenenza. 

Fatto sta che, al di là del processo per un’altra ipotesi di corruzione (francamente risibile), Palamara capisce che poteva prendersi con limpida trattativa politica-sindacale tutte le procure che voleva. Ma su Roma ha fatto male i suoi conti. Molto male. Neanche se veniva fuori dalla tomba Calamandrei gli avrebbero lasciato nominare il capo del potere inquirente nella Capitale. 

Se non sei della corrente di sinistra

Palamara capisce che è finita quando non gli danno neanche il tempo di difendersi al Csm e respingono tutti i testimoni (oltre un centinaio) che possono confermare il contrario di ciò che rilancia il rodato circuito con in testa Repubblica. Così, impossibilitato a difendersi e fucilato con fucili buoni, all’ex lider maximo non rimane altro che vendere cara la pelle. Nel processo che sta affrontando con grinta e determinazione. Ma anche in piazza, a muso duro, nel memoriale intervista col direttore del Giornale. Mai togliere il gusto di una lettura in questo caso utile e doverosa. Anzi. Direi indispensabile. Ma qualcosa bisogna pur segnalare oltre a quelle migliaia di pagine di intercettazioni palamaresche dove si trovano le chat di tanta bella magistratura che chiede favori, raccomandazioni, biglietti per partite di calcio, segnalazioni per un figlio o per un amante, denunce di “porcherie” di sentenze. Eccetera. 

Dunque Palamara comincia col chiarire che il suo errore è stato nominare due vertici della suprema magistratura che non appartenevano alle correnti di sinistra. E di non aver seguito i consigli del Colle che gli erano stati calorosamente filtrati dal numero due al Csm. Quindi passa a descrivere per filo e per segno come lo stesso capo procuratore uscente di Roma, Giuseppe Pignatone, gli avesse voluto far intendere (con segnale convincente dei guai giudiziari che gli stavano per capitare) l’errore che stava compiendo nell’insistete su un candidato non in continuità col Pignatone medesimo. 

Di qui si snoda un torrente di fatti e fatterelli, guerre e guerriciole interne alla corporazione, che a un certo punto uno si chiede se è in un ufficio di giustizia dello Stato. O è nell’anticamera di una P1 che aspetta solo di essere scoperta e raccontata da una Commissione di inchiesta parlamentare come fu quella sulla P2. 

E allora arriva il killer

Primo esempio del sacco vuotato da Palamara. Maggio 2008. Si insedia il terzo governo Berlusconi, è proprio il caso di dire, con un plebiscito, risultando la sua coalizione la più votata della storia della Repubblica. Così, confessa Palamara, dal Quirinale alla procura della Repubblica di Milano, scatta la mobilitazione antifascista. Ovvero, l’urgenza di riportare l’Anm sotto la guida della sinistra. «Il sacrificato sono io. Devo uscire di scena. L’Anm andava blindata, aprire a sinistra il governo della magistratura era inevitabile. La parola d’ordine era: “Se torna Berlusconi dobbiamo tornare tutti”. Al mio posto arriva Giuseppe Cascini, mio collega di procura a Roma e leader di Magistratura democratica». 

Di mezzo ci finisce anche Simone Luerti, appostato, ancora in epoca del Prodi 2, come presidente non politicizzato di una Anm sostanzialmente neutrale. Confessa Palamara:

«Qualche mese. Luerti rilascia una lunga intervista a Luigi Ferrarella del Corriere della Sera e commette due errori che si riveleranno fatali. Fa una sorta di apertura a Berlusconi sulla possibilità di riformare il Csm e teorizza la possibilità che provvedimenti disciplinari per i magistrati possano essere affidati a qualcuno fuori dal Csm». Testuale: «Occorreva un pretesto. E allora arriva in soccorso il killer». 

Non serve aggiungere altro, mi pare. Se non che questo metodo che si realizza con la complicità di giornalisti e testate amiche verrà ripetuto all’occorrenza, come dettaglia altrove Palamara.

«Le spiego una cosa fondamentale per capire cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni», sintetizza. «Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con un giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione… Ecco, se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo intero. Soprattutto perché fanno parte di un “Sistema” che li ha messi lì e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli». 

Bisogna aggiungere che Palamara nelle sue confessioni non si sta difendendo fuori dal processo ma sta semplicemente contrattaccando la versione del Sistema? Contrattaccando con polpa alla mano per dimostrare dall’interno che la magistratura è il posto dove più radicalmente si fa politica e che lui ora è la vittima – così come tante altre che lui stesso collaborò a designare e a liquidare – di una epurazione politica? Nel frattempo Palamara si sta difendendo proprio nel processo. Dove è già riuscito a dimostrare di essere stato vittima di una fuga di notizie per imboccare i cronisti di sistema del Corriere e Repubblica. E c’è un Gip, a Firenze, che ha ordinato alla procura di indagare. Arriveranno i tabulati telefonici e vedremo chi sono gli autori della spifferata che ha montato la panna in Csm e la grancassa sui giornali per far fuori il più rapidamente possibile l’ex numero uno di Anm. 

Ecco. Mi pare che questa volta ci siamo. Dopo trent’anni di democrazia amputata dello Stato di diritto, i turibolari della retorica non hanno scampo. Altro che “delegittimazione della magistratura”. Qui si parla di cupola, pizzini, killer. Gli avversari della storia messa nero su bianco dal magistrato più potente dell’ultimo decennio devono entrare nel merito e, se riescono, contestare apertamente il devastante quanto circostanziato atto di accusa. Le intimidazioni in stile “querela querela, passerà ’a nuttata” non pare che questa volta possano funzionare.

Anche nella magistratura si affacciano novità. E la politica piano piano torna a fare capolino. Comunque sia, toc toc Quirinale e presidente del Csm, toc toc presidente del Consiglio: a questo implacabile atto di accusa di un ex vertice della magistratura e dello Stato non c’è scampo. È ora di guardarci bene dentro e di abbandonare ogni ipocrisia retorica. L’ora di riconquistare la fiducia dei cittadini con una radicale riforma della giustizia. Riforma del Csm e separazione delle carriere. Dei magistrati. E dei giornalisti. 

Foto Ansa

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