
Padre Aldo Trento, che trovò Cristo nella pelle putrefatta dei suoi malati

Si è spento ad Asunción, tra i malati cui ha dedicato l’esistenza, padre Aldo Trento, missionario della Fraternità San Carlo, che per tanti anni ha scritto per Tempi dopo una felice intuizione del nostro caro Gigi Amicone che gli aveva affidato una rubrica intitolata Post Apocalypto, lettere dalla fine del mondo. Perché “Post Apocalypto”? Perché erano gli anni del film di Mel Gibson, pellicola che racconta di una comunità primitiva nell’America Latina e della vita selvaggia che là si conduceva prima dell’arrivo dell’uomo bianco. Al termine di una spettacolare fuga nella giungla, il protagonista Zampa di Giaguaro giunge in riva al mare dove scorge l’arrivo delle navi spagnole. Ecco, l’“apocalisse”, la rivelazione. Perché assieme agli spagnoli – e a quel “colonialismo” che oggi tanto fa vergognare l’uomo europeo – arrivò anche il cristianesimo, portato da persone che – bestiali e carnali non meno di quelli cui lo annunciavano – di quella rivelazione erano testimoni. La rubrica di padre Aldo voleva dunque sin dal titolo descrivere cosa fosse successo “dopo” quell’apocalypto.

Quella testimonianza al Meeting di Rimini
Padre Aldo, in fondo, non ha fatto altro che questo per tutta la vita: annunciare sempre e senza sosta e a chiunque che «io sono Tu che mi fai» (e poi aggiungeva: «Così, con i miei disturbi e le mie paranoie mentali»). Lo scriveva sempre, lo diceva sempre, quasi fosse una giaculatoria.
Sacerdote passionale e viscerale che in seminario aveva simpatizzato per Potere operaio, aveva raccontato le sue cicatrici in un indimenticabile incontro nel 2008 al Meeting di Rimini, in cui s’era denudato con una sincerità quasi violenta, raccontando di sé, delle sue debolezze, della sua depressione, del suo innamoramento, del suo essere uno «schizzato», ma solo per far risplendere ancora più forte la verità in cui credeva: il cristianesimo è una vita in cui l’ultima parola non è nostra, ma di Dio.
Il primo popolo cristiano della selva
Quando don Luigi Giussani l’aveva mandato in Paraguay, gli aveva augurato «di avere tanta fede e tanta intelligenza da rinnovare la più grande impresa sociale e politica del vostro passato, l’impresa delle Reducciones». E padre Aldo aveva preso molto sul serio questo consiglio, immettendo la sua storia personale dentro la Grande Storia universale della salvezza, portando il suo contributo, con tutto se stesso.
Citava volentieri una pagina del diario di Ruiz de Montoya, nel quale il gesuita che visse a cavallo tra 1500 e 1600 raccontava della difficoltà a spiegare il sesto e il nono comandamento ai guaraní, poligami e cannibali, finché i missionari non decisero di «annunciare l’avvenimento della bellezza di Cristo. E dopo due anni i guaraní, diventati cristiani, chiesero il matrimonio monogamico».
Commentava padre Aldo:
«Nasce la famiglia e con la famiglia il primo popolo cristiano della selva. Lo sviluppo, come affermano i protagonisti, è stato il declinarsi chiaro, deciso, critico e sistematico dell’annuncio cristiano, valorizzando tutto ciò che di autenticamente umano c’era nella cultura guaraní. I protagonisti sono stati i due o tre sacerdoti che vivevano in ogni riduzione, composta da un minimo di tremila a un massimo di cinquemila abitanti. Questi uomini, innamorati di Cristo “ad maiorem Dei gloriam”, sono stati protagonisti con gli indios di una nuova civiltà che potremmo definire come il Medioevo latinoamericano. Il rapporto gesuiti-indios era definito dalla libertà. Come si potrebbe spiegare altrimenti l’amore, il rispetto, la creatività artistica, lo sviluppo economico e sociale, che hanno caratterizzato l’esperienza delle riduzioni?» (Cristo e il lavandino: Educare è partire dalla realtà, Lindau).
Padre Aldo fece in modo che quelle esperienze non rimanessero un ricordo del passato. Come Madre Teresa in India, padre Aldo si mise letteralmente a raccattare moribondi, senza tetto, disperati, assassini, puttane, alcolizzati, stupratori, disabili e tutti quegli “scarti” che la società lascia ai bordi delle strade e aprì loro le porte di casa sua (non è un modo di dire: nella camera accanto alla sua vissero per un certo periodo tre senzatetto).
Nell’ultimo girone dell’inferno edificò un pezzo di paradiso, un villaggio con ospedale, scuola, hospice che, col passare degli anni, i paraguaiani – dal presidente fino all’ultimo balordo, ma anche papa Francesco – impararono a stimare e amare. Un perenne cantiere della carità, sempre in fermento come la Sagrada di Gaudí, luogo di ristoro e preghiera, dove quel «Tu che mi fai» non è rimasto espressione pia, ma è diventato opera, “cosa”, medicina per il malato di Aids, bacio sulla testa del piccolo Victor – il piccolo bimbo idrocefalo, sformato come un Elephant man, che Aldo adottò («Sì, all’anagrafe risulto come suo padre. Lui è la mia piccola ostia bianca»).

La lettera a Napolitano
Nei suoi libri e nella rubrica delle lettere che teneva su Tempi, per una decina d’anni padre Aldo parlò di gente moribonda, scassata, piegata dal cancro o dai vermi nell’utero, raccontando di loro, ma anche di sé e rimproverando – il più delle volte – a chi gli scriveva di non cogliere mai il punto, di perdersi in elucubrazioni mentali, sofisticherie intellettualoidi, ghirigori astratti. Cristo è carne, amico mio – diceva –, anche questa carne putrefatta.
Lui, che tutti i giorni dalle cinque di mattina in avanti altro non faceva che pregare e confortare e occuparsi di derelitti, non aveva tempo da perdere. Per lui la preghiera era il tessuto della giornata, lode e farmaco, innanzitutto per se stesso («quando arriva il Santissimo nel mio letto mi passa la sofferenza che neanche la morfina calma. Gesù è la mia forza»). E per lui quei pazienti non erano altro che la possibilità di rimettere al centro della giornata il senso della vita.

Nessuno doveva osare strapparglieli via. Tanto che, quando il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli conferì il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà, lui glielo rispedì indietro. Padre Aldo aveva saputo che Napolitano non aveva firmato il decreto che avrebbe arrestato il protocollo medico per Eluana Englaro e, assieme alla medaglia, gli mandò una lettera:
«Come posso io, cittadino italiano, ricevere simile onore quando Lei, con il suo intervento, permette la morte di Eluana, a nome della Repubblica italiana? Ho più di un caso come Eluana Englaro. Penso al piccolo Victor, un bambino in coma, che stringe i pugni, l’unica cosa che facciamo è dargli da mangiare con la sonda. Di fronte a queste situazioni come posso reagire al caso Eluana? Ieri mi portano una ragazza nuda, una prostituta, in coma, scaricata davanti a un ospedale, si chiama Patrizia, ha diciannove anni, l’abbiamo lavata e pulita. E ieri ha iniziato a muovere gli occhi. Celeste ha undici anni, soffre di una leucemia gravissima, non era mai stata curata, me l’hanno portata soltanto per seppellirla. Oggi Celeste cammina. E sorride. Ho portato al cimitero più di seicento di questi malati. Come si può accettare una simile operazione come quella su Eluana? Cristina è una bambina abbandonata in una discarica, è cieca, sorda, trema quando la bacio, vive con un sondino come Eluana. Non reagisce, trema e basta, ma pian piano recupera le facoltà. Sono padrino di decine di questi malati. Non mi interessa la loro pelle putrefatta. Vedesse i miei medici con quale umiltà li curano. Il caso di Udine ha sconvolto tutti, medici e infermieri. L’uomo non si può ridurre a questione chimica. Come può il presidente della Repubblica offrirmi una stella alla solidarietà nel mondo? Così ho preso la stella e l’ho portata all’ambasciata italiana del Paraguay. Qui il razionalismo crolla lasciando spazio al nichilismo. Ci dicono che una donna ancora in vita sarebbe praticamente già morta. Ma allora è assurdo anche il cimitero e il culto dell’immortalità che anima la nostra civiltà».

Un luogo per me
Poco prima del Natale dell’anno scorso, quando ormai già la malattia l’aveva fortemente debilitato, ci mandò il suo ultimo Te Deum che, riletto oggi, pare davvero un testamento spirituale.
Si concludeva così:
«Ho bisogno dei miei pazienti per purificarmi. Quando ho fondato la clinica San Rafael ad Asunción, non immaginavo che il Signore stesse preparando un luogo per me, affinché fossi accolto, abbracciato, curato, sostenuto e confortato.
Il Signore voleva che fossi coinvolto fino in fondo con Lui, con il modo in cui è entrato nel mondo con la definitività della Risurrezione.
Prima potevo pregare, leggere il breviario da solo, per mantenere questa memoria di Cristo presente nella mia vita, oggi non riesco nemmeno a leggere, quindi nemmeno a pregare il breviario. Dio ha avuto pietà di me e mi ha dato un luogo.
La clinica è per me oggi un luogo di memoria. Ogni volta che visito un malato è come se si incarnasse un salmo del breviario. Dolore, pentimento, gioia e felicità è ciò che assaporo quando visito ognuno di questi compagni di malattia che mi ricordano sempre chi sono e dove sto andando».
Negli ultimi tempi continuava a ripetere ai suoi collaboratori questa frase: «Adesso mi rendo conto che Dio ha voluto questa clinica per me». “Io sono Tu che mi fai”, fino all’ultimo giorno.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!