Oscar, in stato vegetativo da 15 anni, e la mamma Matilde: «Educhiamo alla vita, perché c’è qualcosa che va oltre la scienza»

Di Fabio Cavallari
08 Febbraio 2011
Il prossimo 9 febbraio si celebra la Giornata nazionale degli stati vegetativi e l'anniversario della morte di Eluana Englaro. Pubblichiamo una delle vicende raccontate da Fabio Cavallari nel libro “Vivi – Storie di uomini e donne più forti della malattia”

Domani, 9 febbraio, si celebrerà la Giornata nazionale degli stati vegetativi, voluta dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dal ministro della Salute Ferruccio Fazio. «Nell’ambito di tale giornata – si legge nella direttiva pubblicata il 18 gennaio scorso sulla Gazzetta Ufficiale – le amministrazioni pubbliche e gli organismi di volontariato si impegnano a promuovere, nell’ambito delle rispettive competenze, attraverso idonee iniziative di sensibilizzazione e solidarietà, l’attenzione e l’informazione su questo tipo di disabilità, che coinvolge oltre al malato, in maniera assai rilevante, i familiari».

Coincidenza non casuale, il 9 febbraio ricorrerà
anche l’anniversario della morte di Eluana Englaro, la donna di Lecco morta nel 2009 (dopo diciassette anni di “stato vegetativo”) per interruzione di idratazione e nutrizione. Pubblichiamo l’adattamento di una delle vicende raccontate da Fabio Cavallari nel suo libro “V
ivi – Storie di uomini e donne più forti della malattia” (ed. Lindau).

23 giugno 1995. Oscar Calì ha sei anni, è in Francia in vacanza con i suoi genitori, ha voglia di giocare, di correre. Si butta in piscina. Pochi secondi, qualche momento di confusione, di panico, poi perde il controllo, va sott’acqua. Mamma Matilde, che era andata in bagno per qualche secondo, giunge da sola a bordo piscina, cerca di intervenire, di prestargli i primi soccorsi. Arrivano gli altri che hanno udito le grida. L’arresto cardiaco dura trentasette minuti. La corsa al vicino ospedale è immediata. I sanitari francesi, professionali e tempestivi, sono molto decisi. Dopo qualche ora la loro diagnosi è perentoria. «Non si registra più alcuna attività elettrica del cervello. Le pupille non reagiscono alla luce. Le lesioni sono di tale entità da non permettere alcun recupero funzionale. Oscar non è più padrone di alcuna delle sue funzioni vitali. I danni subiti sono talmente gravi da non essere compatibili con la vita. Il risveglio è impossibile».

È coma irreversibile, dépassé. I sanitari chiedono alla famiglia di ragionare in merito all’eventuale espianto degli organi, in qualche modo sollecitano il “fine vita”. Matilde non si arrende, ogni giorno in rianimazione guarda suo figlio cercando un appiglio di vita dentro quel corpo assente, lo scruta, esamina ogni piccolo particolare. Per otto giorni la situazione è sempre la stessa. Identica al giorno prima. Sino a quando, entrando in quella stanza, la mamma si accorge di un piccolo segno. Oscar quando parlava era abituato a gesticolare, era solito muovere l’indice della mano sinistra come a rimarcare un concetto, una parola. Ebbene, il suo corpo era immobile, le dita delle mani chiuse a pugno. Tutto era identico, stessa postura, immodificati i risultati delle analisi, il monitoraggio giornaliero. Tranne un piccolo particolare, quel dito indice della mano sinistra aperto, in posizione distesa.

Matilde non ha dubbi, Oscar è tornato. Lo fa subito presente ai medici, alle infermiere presenti. Non ha neppure il tempo per rendersi conto di quanto stia accadendo, cosa voglia dire quel segnale, quel piccolo gesto, e le macchine ripartono. Il coma irreversibile è rientrato. La situazione continua ad essere gravissima, sono poche le possibilità che gli vengono concesse. I genitori di Oscar decidono di trasferirlo in Italia. Scelgono un importante ospedale di Torino per potergli stare vicino costantemente. La famiglia vive proprio alle porte del capoluogo piemontese e poter dialogare con i medici nella lingua madre è un sicuro vantaggio. Almeno questo è quanto credono in prima battuta. In verità la struttura ospedaliera italiana non è preparata a ricevere un paziente così compromesso. Le tecniche mediche in essere a quell’epoca non sono all’avanguardia e soprattutto la situazione di coma è ancora poco indagata, poco compresa. Le condizioni di Oscar sono molto serie. All’orizzonte non si intravedono miglioramenti. Anche l’approccio psicologico nei confronti dei genitori è devastante. Durante un incontro con i medici si sentono dire: perché non fate un altro figlio? La domanda, seppur retorica, è insopportabile. Non esiste soluzione al dolore, a quella sofferenza scritta sugli occhi e sul volto dei genitori, ma la freddezza professionale non dovrebbe mai sostituirsi alla sensibilità, al rispetto per l’uomo. Quel giorno stesso decidono di spostare Oscar in un altro ospedale torinese. Nessun miracolo, ma l’attenzione dedicata al piccolo è di tutt’altro segno.

Si parla di stato vegetativo persistente, ma le definizioni sono ancora molto labili e incerte. Oscar percepisce quanto gli sta accadendo attorno? Non riesce a comunicare ma esiste una forma di subcoscienza che cerca di ribellarsi a quello stato? Le uniche “esternazioni” del bambino sono testimoniate dal livello della temperatura corporea e dalla sudorazione. Oggi, a distanza di quindici anni, si stanno studiando i comportamenti e le varie reazioni delle persone in stato vegetativo. Tra queste anche le variazioni della temperatura. Oramai è stato documentato che il più delle volte si tratta di infezioni batteriologiche, ma in alcuni casi la febbre compare in assenza di virus nel paziente. Proprio su questi casi si stanno organizzando studi ad hoc. Del resto le tecnologie d’indagine di oggi sono molto più puntuali ed efficaci di quelle del secolo scorso.

Dopo centootto giorni Oscar torna a casa. È il 19 dicembre 1995. Sono trascorsi sei mesi da quel terribile incidente. Le sue condizioni di salute sono stazionarie. Non ci sono miglioramenti tangibili. «Quando Oscar è stato dimesso gli sono stati dati sei mesi di vita», racconta Matilde. «Siamo al quindicesimo anno. A livello organico non ha problemi. È curatissimo, non ha piaghe. Da un punto di vista dell’animo, non è presente. Non ha ancora deciso dove andare».

Il programma di fisioterapia è a totale carico della famiglia. La carenza di risorse economiche costringe a calibrare gli interventi. Solo due, massimo tre ore alla settimana. Oscar non può essere trasportato nei centri Asl a causa della deficienza immunitaria. Per questo motivo vengono vanificati i confronti con i vari specialisti che sarebbero stati utili per procedere nel programma di risveglio. Il servizio sanitario nazionale è distante, quanto viene offerto è del tutto inadeguato e insufficiente. Anche per ottenere i pannoloni e l’alimentazione speciale per la Peg (tra le poche cose che lo Stato garantisce per diritto) la famiglia di Oscar deve lottare, prodursi in contestazioni. Non è facile neppure ottenere il contributo di accompagnamento.

Nonostante la sequela di difficoltà, la fatica quotidiana e l’assenza di una presenza attiva delle istituzioni, Matilde riesce a mantener fede alla sua volontà. Oscar ha bisogno di un’assistenza continua, di persone che lo curino ventiquattro ore su ventiquattro. Tutte le energie a disposizione vengono spese per creare le condizioni migliori per il suo soggiorno domestico. La famiglia, viene circondata da un servizio di volontariato che si alterna per alleggerire la giornata. «Oggi casa nostra è un porto di mare. Io sono dovuta tornare al lavoro stabilmente ma ho voluto e preteso che Oscar non avesse solo un’assistenza medica. Nell’arco della giornata molte persone vengono a fargli visita cercando di stimolarlo attraverso la lettura di libri, l’ascolto di musica e molto affetto. È una maniera per cercare di garantirgli costantemente un contatto con il mondo esterno. Da un punto di vista clinico non ha fatto grandi miglioramenti sul piano delle capacità cognitive, inoltre, come tutti i soggetti in coma vigile, è sottoposto a ripetute crisi epilettiche. Senza i volontari, le tante persone che mi hanno aiutato, non sarei mai riuscita a domare la mia sofferenza. O meglio a tenerla a bada, a fare in modo che possa diventare in qualche modo utile. Quando accadono fatti come quelli capitati a mio figlio, con tutte le difficoltà anche pratiche che si devono affrontare, spesso le famiglie si autodistruggono. È un dono immenso quello che ho ricevuto e il bene che ho percepito sulla mia pelle ho voluto che diventasse uno sprone anche per altri. Per questo ora, oltre ad accudire Oscar, mi sono messa a disposizione di tutti coloro che si trovano in situazioni complicate. Per trasferire il bene avuto e soprattutto per far capire che ognuno di noi ha un ruolo nella vita».

La battaglia di Matilde e dei tanti amici che le sono accanto – che lei chiama “gli invisibili” perché sono coloro che non fanno notizia, ma che ogni giorno lottano per la vita – nel corso degli anni ha concentrato l’attenzione anche sulla necessità di facilitare la domicialiarità per i pazienti come Oscar. Oltre al fatto che i costi sarebbero di gran lunga inferiori anche per le casse del Servizio sanitario nazionale, la famiglia, se ben istruita e supportata, può produrre benefici per tutti. Senza dubbio per il paziente, che può vivere in ambiente amico; ma anche per il nucleo familiare, che con l’ospedalizzazione soffre di un vissuto spezzato, interrotto. Entrare e uscire dall’ospedale perpetua continuamente l’insuccesso dei genitori. «Il grande dramma dell’umanità – sottolinea Matilde a Tempi – è che si vuole organizzare, protocollare, tenere tutto sotto il controllo della mente. E l’anima? Come puoi con la mente arginare lo spirito? Io ho imparato dentro questa esperienza che il cuore delle persone è vivo, spesso è il cervello ad essere offuscato. Bisogna educare alla vita, perché c’è qualcosa che va al di là della scienza».

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