
Oscar che dimenticheremo. E altri che non hanno avuto il coraggio di assegnare

Alla fine l’unico premio sacrosanto non l’hanno dato. Dico quello per la miglior sceneggiatura, perché September 5 ha una sceneggiatura di ferro e peraltro era il film perfetto per dire qualcosa di sensato sul conflitto israelo-palestinese e cioè che si riparte sempre e solo da uno sguardo umano per ricostruire qualcosa.
Amen. Non è la prima volta che all’Academy prendono fischi per fiaschi ed è lunghissima la fila di film premiati con Oscar prestigiosi caduti nel dimenticatoio da subito (chi si ricorda di Moonlight che nel 2016 sconfisse La La Land, che poi a sua volta non è che fosse ’sto film eccezionale?). Credo che sarà il destino di Anora, che domenica scorsa ha vinto 5 Oscar, tutti pesanti (miglior film, regia, attrice, montaggio, sceneggiatura): è un buon film, ben scritto certamente e con un’interprete sorprendente (Mikey Madison), ma non ha la forza di diventare un classico e non è nemmeno il film migliore di Sean Baker.
Mi ha fatto ridere questa tragicomica avventura di una sex worker che trova il pollo da spennare ma poi forse si innamora di lui e forse no, e finisce in un viaggio assurdo con gli sgherri russi di un oligarca. Fa davvero ridere, ha dei tratti alla Tarantino, un ritmo indiavolato ma dà spazio anche allo spessore psicologico della protagonista che sembra tanto scema e non lo è, e sembra tanto godereccia e non lo è.

La caduta di “Emilia Pérez”
Era però più tosto, coeso e aveva una regia spigolosa il notevole Emilia Pérez, che sembrava costruito per stravincere nel nome dell’inclusione eccetera, poi è caduto proprio su dichiarazioni vecchie o nuove, sincere o no, condivisibili o meno della protagonista, Karla Sofía Gascón, che fino a prova contraria dovrebbe essere valutata per il suo talento e non per i messaggini che scrive seduta o in piedi sul cesso.
Peccato, Emilia Pérez è un gran film, dove l’identità di genere è solo un pretesto per raccontare una vicenda di grande contraddizione, un dissidio interiore che può finire solo come il finale di Thelma e Louise (a proposito, ecco un film memorabile, rimasto nel tempo anche se vinse appena un Oscar). Doveva vincere il premio per la regia, per la sceneggiatura e per l’attrice protagonista, invece porta a casa solo un contentino per Zoe Saldaña, attrice non protagonista.

Premi giusti e scotti da pagare
The Brutalist (tre Oscar: miglior attore protagonista, miglior colonna sonora, miglior fotografia) è un grande film che si regge sul nasone in VistaVision di Adrien Brody, che avrebbe dovuto vincere due premi, uno per sé e uno per il suo naso che sembra uscire dallo schermo e vivere di vita propria. Brody, quando è ben diretto, è un attore assoluto.
Del film di Walter Salles, Io sono ancora qui, abbiamo già detto nel numero di marzo del mensile. Rimane un film potente, ricco di sfumature e per noi assolutamente imperdibile: merita il premio che si è aggiudicato come miglior film straniero.
Il grande sconfitto, A Complete Unknown, è un buon film che non ha però la forza di sfondare agli Oscar e Timothée Chalamet ha una lunga carriera davanti per vincerne 5 di Oscar. Non ho capito troppo A Real Pain, altra avventura tragicomica nella storia del popolo di Israele vista attraverso gli occhi di due cugini, assai diversi tra di loro, in viaggio a ripercorrere le tappe dello sterminio degli ebrei sotto il nazismo. Qui Kieran Culkin è alle prese con una interpretazione sopra le righe ma anche artificiosa, come un po’ ovvia mi sembrano tutta la vicenda e le svolte del film: vince l’Oscar come miglior attore non protagonista.

L’altro grande sconfitto
Altri premi: il più significativo tra i film d’animazione era Il robot selvaggio, bella favola umanista tecnicamente ineccepibile. Ha vinto invece Flow che mi sembra inferiore anche a Inside Out 2, nonostante abbia un’animazione sofisticata e rischi grosso non inserendo praticamente nessun dialogo.
Il mediocre Conclave ha vinto per la miglior sceneggiatura non originale, che è poi la cosa più debole di un film che ha un finale ridicolo ma anche un attore spaccatutto come Ralph Fiennes e una regia solida e geometrica dal piglio kubrickiano. Ha battuto I ragazzi della Nickel, uscito direttamente su Prime Video e costruito in effetti su una sceneggiatura molto complessa, e proprio Emilia Pérez, punito anche in questa categoria.
Mi manca da vedere il miglior documentario, No Other Land, girato da autori palestinesi e israeliani e che documenta gli sforzi di alcuni attivisti palestinesi per tentare di opporsi alla distruzione del loro villaggio natale in Cisgiordania. Chiudo con l’altro grande sconfitto, ovvero il complicato, esagerato The Substance, che porta a casa un premio minore come quello per il miglior trucco, ma avrebbe meritato certamente qualcosa, forse l’Oscar per la regia, ricchissima e barocca. O lo avrebbe meritato almeno Demi Moore, che è sembrata aver trovato, dopo tanti anni di alti e bassi, il ruolo della vita.
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Proprio Semptember 5 è il film scelto da Simone Fortunato e Tempi per il prossimo “Appuntamento al buio”, giovedì 13 marzo al cinema Le Giraffe di Paderno Dugnano (Mi). A breve ulteriori dettagli, intanto si può già prenotare il biglietto a solo 5 euro cliccando qui.
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