
Orune
Grazia Deledda lo vedeva come il paese dei colombi e degli sparvieri, fabbricato «sul cucuzzolo grigio di una vetta di granito». Carlo Levi lo descrive come «paese antico e chiuso, dove permangono forse più che in ogni altro, gli usi, i costumi, le tradizioni popolari più lontane». Nella poesia popolare viene definito come il paese che sfida a viso aperto il vento e dove non si può vivere senza bestiame rubato. Alfonso La Marmora, nel suo viaggio in Sardegna, lo ricorda giusto perché alle sue pendici fu malauguratamente rapinato. Francesco Fara, scrivendone nel 1838, dice che vi si viveva quasi solo di caccia e pecore. Nel dizionario Angius/Casalis, i suoi abitanti vengono presentati come spergiuri, ubriaconi, bestemmiatori, violenti. Il figlio illustre, Antonio Pigliaru, filosofo del diritto e punta di diamante degli intellettuali sardi, vi ha elaborato il suo Codice della vendetta barbaricina e la cultura del “noi pastori”.
Tutto questo e molto altro ancora è Orune, paese confinato sui monti a una ventina di chilometri da Nuoro, vetrina vivente del passato remoto e dell’indicativo presente. Le sue contraddizioni si porgono allo stato puro. Gli orunesi sono dotati di una vivace intelligenza e di una rara capacità ironica, sono generosi, inclini alla poesia, ma anche violenti, prepotenti, esagerati, permalosi. Per molti versi ricordano quei villaggi palestinesi in perenne ebollizione, dove una manciata di cristiani resta come segno di speranza e di benedizione.
Dal 1975 Orune è amministrato da coalizioni di sinistra che si sono rivelate impotenti di fronte a un pauroso calo demografico: in 40 anni si è passati da 6 mila abitanti a meno di 3 mila. Toscana, Lazio e nord della Sardegna sono le mete di una diaspora dai contorni biblici. Colpa di un’economia basata sulla pastorizia allo stato brado e delle faide che rendono insicura la vita. Due elementi che si intrecciano strutturalmente.
Il record di detenuti e di preti
Gran parte del territorio di Orune è “cumonale”, cioè appartenente alla popolazione, mentre la proprietà privata è marginale. Significa che ogni orunese può comprarsi del bestiame e pascolare su questi territori pagando un prezzo simbolico al Comune. Fino a mezzo secolo fa, “su cumonale” veniva diviso tra contadini e pastori: le porzioni destinate un anno a pascolo nell’anno successivo spettavano ai contadini, e viceversa. Ora i contadini sono scomparsi e tutto è rimasto a disposizione dei pastori. In questo “mare” esiste una legge non scritta le cui regole sono purtroppo variamente interpretate. Inevitabilmente è fonte di tensioni, di litigi, di omicidi. Le terre comunitarie hanno costituito la valvola di sfogo contro la miseria e l’emigrazione. Oggi sono una palla al piede per il cambiamento.
Orune, paese dei primati per numero di laureati, detenuti e preti (ben tredici). Come e più di Orgosolo. Preti pastori di anime, figli di pastori di pecore. Tipi tosti che non hanno limiti nella donazione a Dio e nel servizio alla loro gente. Uno di loro, Ignazio Sanna, è ora arcivescovo di Oristano. Non basta. Il paese è arrivato ad avere in contemporanea quarantacinque suore e trenta laici consacrati. Chi sceglie di servire Dio lo fa senza sconti. Neanche quando si abbattono prove da spaccare il cuore di chiunque.
Meglio morto che assassino
Salvatorangelo e Giovanni Maria Chessa sono due fratelli sacerdoti che hanno visto la loro famiglia decimata da una violenza omicida cieca e spaventosa: quattro fratelli uccisi, due nipoti e tre zii. Sentirli dire che «solo il perdono cambia la vita» provoca uno stupore, lo stupore cristiano, incontenibile. Non una parola d’odio sulla loro bocca, ma solo la preghiera che Cristo sia per tutti “via, verità e vita”. Non è cosa da poco in un paese dove le due uniche cose eterne sembrano essere l’odio e l’amore.
Tetta Manca invece è una giovane infermiera. A lei hanno ucciso il marito. Davanti alla sua salma ha chiesto al figlio adolescente di promettere solennemente che avrebbe perdonato e rifiutato la violenza. Ma come, le donne di Orune non sono vestali della vendetta, come dicono gli studiosi? Evidentemente no. Bisogna conoscerle davvero, queste donne. Ne trovi che sono vestali dell’odio ma anche, molte, che sono angeli di pace, capaci di dire: «Preferirei che mio figlio morisse piuttosto che diventasse “mortore”, assassino».
La statua della Madonna della Consolata, nell’arco di un anno, è stata ospite per almeno un giorno nelle singole famiglie. È entrata in tutte le case, accolta ogni volta dalle preghiere di mogli, mariti, figli, parenti e vicini. Le stesse case nelle quali sono stati pianti più di cento assassinati nel giro di mezzo secolo. E si è fatto a gara per averla anche di notte, in modo che potesse essere vegliata pure dagli uomini che al tramonto tornano dagli ovili e ripartono l’indomani. No, non si tratta di folklore. Ogni primo sabato del mese c’è un incontro di preghiera alla Madonna di Lourdes: colpisce il numero dei giovani che vi prendono parte. Gli stessi giovani che non sono un modello di frequenza alla messa domenicale, che trovi nei bar, ossia negli unici punti di aggregazione sociale esistenti in paese.
In preparazione alla Pasqua, ogni anno in un ovile diverso, tra Orune e Nuoro, viene celebrata la Messa per i pastori. Sembra di rivivere l’adunata dei pastori davanti alla grotta di Betlemme. Centinaia di uomini con barbe incolte, vestiti di velluto, scarponi di pelle artigianali, mani e braccia rese d’acciaio dalla mungitura. Uomini che vivono al confine tra il lecito e l’illecito, abituati a cavarsela da soli davanti agli imprevisti della vita, che sanno “fronte parare”, guardare in faccia le avversità, bere e mangiare smodatamente, divertirsi come ragazzini. Ebbene, la gran parte di loro si confessa, segue la Messa, resta al pranzo e poi fa le ore piccole. Perché piccolo è un giorno di grazia in stagioni di preoccupazioni e affanni. Con il latte ovino che viene pagato un terzo di una bottiglia di birra, con la peste suina che blocca la commercializzazione dei maiali, con la lingua blu che comporta l’abbattimento di un gregge, l’agalassia e la mastite che ti portano il veterinario ogni giorno all’ovile, c’è poco da stare allegri. Ma questo giorno, la Pasqua del pastore, è giorno di allegria. Perché “su chi no si dat a Cristos si lu piccan tristos”, quello che non si danno a Cristo se lo prendono tristi figuri.
Paese di sinistra, ma contro l’aborto
Paese amministrato dalle sinistre. Ma anche l’unico in Italia dove vinse il sì al referendum per l’abrogazione della legge sull’aborto. Il segreto di quella vittoria fu un gruppo di amici di don Luigi Giussani, figli anche loro di pastori, che girarono di casa in casa. E fu un vecchio pastore a stupirli. Tziu Paskale disse infatti che avrebbe votato sì perché «una pecora bisogna portarla via dal punto dove abortisce un agnello. Altrimenti resta immobile lì, e muore anche lei. Immaginate cosa succede a una donna. Un bambino vale molto di più di un agnello». Tziu Paskale scannava con maestria pecore e agnelli, castrava maiali e, con perizia chirurgica, estraeva le ovaie da una scrofa, se questa entrava in calore prima del tempo della macellazione. Ma solo lui provava dispiacere vero per l’aborto di una pecora. Solo un pastore vero sa cosa vuol dire dare la vita per le proprie pecore. Gesù era uno di loro.
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