
Onu, Stato palestinese: la debolezza di Obama è la forza di Abu Mazen
La perdita di 500 milioni di dollari di aiuti annui americani e di almeno una parte dei 600 milioni europei, la rottura dei meccanismi di cooperazione con Israele in materia di sicurezza e di gestione delle risorse idriche fissati dagli accordi di Oslo, il blocco di trasferimenti delle entrate fiscali da Gerusalemme a Ramallah e altre rappresaglie israeliane come un giro di vite sui movimenti delle persone e delle merci nei Territori e un’accresciuta espansione degli insediamenti dei coloni. La possibilità di violente manifestazioni popolari palestinesi in reazione a un veto americano in Consiglio di sicurezza, la rottura o un grave deterioramento dei rapporti politico-diplomatici con gli Stati Uniti, con tutto ciò che comporta. Le conseguenze negative per i palestinesi della decisione dell’Autorità nazionale palestinese di domandare formalmente alle Nazioni Unite di essere riconosciuta come stato membro sono prevedibili. Se Abu Mazen ha deciso comunque di affrontarle, non è solo per la frustazione di un anno di assoluto immobilismo negoziale dopo il summit di Sharm el Sheik del settembre 2010 e la constatazione che l’obiettivo dei due stati per due popoli non ha fatto, in termini politici, nemmeno un passo in avanti rispetto alla lettera della dichiarazione congiunta letta quattro anni fa al termine della Conferenza di Annapolis. Ci sono altre decisive considerazioni politiche che hanno spinto alla mossa che prende corpo in queste ore.
La prima considerazione riguarda il ruolo degli Stati Uniti in Medio Oriente. In pochi anni si è passati da un’egemonia americana schiacciante, in grado di imporre il regime change in Iraq e di ottenere la rinuncia da parte della Libia di Gheddafi alle armi di distruzione di massa senza che gli stati arabi potessero ostacolare il nuovo ordine americano, alla vertiginosa caduta dell’influenza Usa nella regione, messa allo scoperto dalla cosiddetta primavera araba. Nessuno degli eventi drammatici avvenuti e che stanno ancora avvenendo nel mondo politico arabo – la caduta dei regimi filo-occidentali di Ben Ali e di Mubarak rispettivamente in Tunisia e in Egitto, la deposizione di Gheddafi in Libia, i moti popolari in Siria da mesi repressi nel sangue – ha visto Washington nel ruolo del protagonista: l’Amministrazione Obama insegue gli avvenimenti e cerca di mettere il cappello su esiti che non sono dipesi, finora, dal suo intervento se non molto parzialmente in Libia. Abu Mazen ha compreso che questo è il momento migliore per forzare la mano agli americani: stanno cercando di recuperare immagine e alleanze nel mondo arabo in transizione, e un veto in Consiglio di Sicurezza contro la richiesta di riconoscimento della Palestina comprometterebbe gravemente le loro chances di riposizionamento.
Dovessero gli americani appiattirsi sulle posizioni israeliane di rifiuto, dovessero mostrarsi incapaci di esercitare pressioni sugli israeliani e offrire ai palestinesi una significativa contropartita in cambio di una loro eventuale rinuncia al riconoscimento, Abu Mazen avrebbe la prova del nove della debolezza americana e dell’opportunità di licenziarli dal loro ruolo di mediatori fra palestinesi e israeliani. Se anche di fronte a una crisi che mette a repentaglio il restante capitale politico americano in Medio Oriente Washington non è capace di inventarsi qualcosa per venire incontro ai palestinesi, se continua a pretendere un ritorno all’ordine in cambio di niente, questo significa che è venuto il momento di scaricare gli americani, anche se ciò ha un costo in termini finanziari. Se Obama ha un soprassalto e coglie l’opportunità della domanda palestinese per rimettere seriamente in moto il negoziato fra Gerusalemme e Ramallah, allora ugualmente la mozza palestinese si rivelerà azzeccata: i tempi ci sarebbero, perché il Consiglio di Sicurezza non è obbligato a votare immediatamente, e può mettere ai voti anche altre risoluzioni, che assorbano in qualche modo la richiesta di riconoscimento palestinese dentro a una nuova road-map della pace.
L’altra considerazione politica generale che muove Abu Mazen è legata ai moti popolari nel mondo arabo: essi hanno creato anche in Palestina un’atmosfera di insofferenza nei riguardi delle autorità al potere, accusate di corruzione, incompetenza e mancanza di rispetto per le libertà democratiche, ma anche sempre più di collaborazionsimo con un governo israeliano che non avrebbe nessuna intenzione di arrestare nuovi insediamenti di coloni nei Territori né di creare le condizioni per la nascita di uno stato palestinese. Infine Abu Mazen doveva fare qualcosa per migliorare la sua immagine in vista delle elezioni palestinesi che, in base all’accordo fra Al Fatah e Hamas dell’aprile scorso, dovrebbero svolgersi al più tardi fra un anno. Il premier palestinese ha annunciato che non si ripresenterà alle elezioni, ma il suo partito per ragioni politiche e lui per ragioni personali intendono arrivare a quell’appuntamento con un bilancio onorevole. Potersi presentare agli elettori vantando il riconoscimento internazionale dello Stato palestinese sarebbe cosa ben diversa dal presentarsi privi di qualunque risultato ottenuto al tavolo dei negoziati con Netanyahu e con qualche centinaio di migliaia di coloni israeliani in più insediati nei Territori.
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