Oggi si vota in Iran e non è tutto già scritto

Anche se il potere che conta è nelle mani dell'ayatollah Khamenei e dei Guardiani della Rivoluzione, il governo eletto serve al regime per dare sfogo alle istanze popolari. Ecco perché è stato ammesso al voto un riformista, Pezeshkian, che ha chance di vittoria

Masoud Pezeshkian, unico candidato riformista alle elezioni in Iran (Ansa)

L’improvvisa morte del presidente dell’Iran, Ebrahim Raisi, e del suo ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, ha catapultato l’Iran in una nuova delicata fase, lasciando il paese senza alcuni dei suoi vertici in un momento di elevata, e crescente, tensione regionale e internazionale. Il primo obiettivo iraniano dopo la scomparsa di Raisi è stato assicurare la continuità del potere e il funzionamento del sistema istituzionale sorto dalla Rivoluzione del 1979.

La Guida Suprema (rahbar), l’ayatollah Ali Khamenei, ha rapidamente confermato Mohammad Mokhber nel ruolo di presidente ad interim, volendo dimostrare che la tenuta del sistema rivoluzionario non dipende dalle singole persone a lui sottoposte. Il secondo passo è stata l’indizione delle elezioni del 28 giugno.

I due modi di guardare alle elezioni in Iran

Ci sono due modi, opposti, con i quali guardare l’appuntamento elettorale in corso: il primo consiste nel ritenere le elezioni iraniane un mero atto procedurale all’interno di un sistema duale nel quale i veri centri di comando e potere risiedono in organi non elettivi a legittimazione religiosa. Secondo questa prospettiva l’elezione del presidente della Repubblica e la conseguente nomina del governo hanno un impatto sostanzialmente irrilevante sulla vita politica iraniana e sul modo con cui Teheran si pone nello scacchiere regionale.

La seconda opzione è quella di sperare in un reale cambiamento (in positivo) grazie all’eventuale successo alle urne dell’unico candidato moderato-riformista ammesso alla gara, Masoud Pezeshkian. O, al contrario, aspettarsi un ulteriore irrigidimento della postura iraniana in caso di vittoria di un conservatore come Mohammad Baqer Qalibaf (ex pasdaran, oltreché sindaco della capitale per 12 anni) o di un radicale come Saeed Jalili (ex capo negoziatore sul nucleare).

Chi detiene davvero il potere

Come spesso accade entrambe queste posizioni, a loro modo estreme, non permettono di cogliere la complessità del nezam (il sistema politico iraniano) e la fluidità dei rapporti di potere al suo interno. Da un lato, infatti, è senza ombra di dubbio vero che i più importanti centri di potere sono nelle mani delle élite conservatrici vicine a Khamenei e ai Guardiani della Rivoluzione, ben al di fuori della portata delle elezioni. In particolare, in ambiti come la Difesa, la sicurezza della Repubblica, la politica estera e, non ultimo, il sempre più preoccupante programma nucleare, il governo eletto non tocca palla.

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O meglio, potrebbe eventualmente toccarla soltanto se la Guida Suprema glielo concedesse. D’altro canto, occorre però comprendere che, almeno da quando Khamenei è succeduto a Ruhollah Khomeini al vertice della Repubblica Islamica, il governo eletto ha svolto una funzione quasi assimilabile a quella dell’opposizione, o comunque ha funzionato da contraltare al rahbar e ai Guardiani della Rivoluzione, nel tentativo di dare sfogo alle istanze popolari incanalandole all’interno del sistema.

L’eccezione della presidenza Raisi

Sono interpretabili in questo modo sia i governi guidati da Hashemi Rafsanjani (1989-1997), Muhammad Khatami (1997-2005) e Hassan Rouhani (2013-2021) che quello dell’incendiario Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013). Le cose sono cambiate proprio con la presidenza di Ebrahim Raisi, che ha portato le figure più vicine a Khamenei anche alla guida del governo, restringendo ulteriormente ogni spazio politico.

Nell’ottica di Khamenei la presidenza Raisi e l’annullamento del margine d’azione per politici riformisti, moderati o populisti (come Ahmadinejad) serviva a cementare la presa del potere in vista della transizione veramente importante, quella al ruolo di Guida Suprema per cui lo stesso Raisi veniva accreditato da buona parte della stampa occidentale. Più probabilmente Raisi sarebbe servito a gestire la transizione verso un altro candidato precedentemente individuato assieme a Khamenei, ma l’incidente aereo ha rovinato i piani dell’anziano chierico.

Ali Khamenei alle commemorazioni per il 35mo anniversario della morte dell’ex Guida Suprema, Ruhollah Khomeini (Ansa)

L’affluenza in calo e il ruolo del voto in Iran

Dal punto di vista della Repubblica Islamica il problema risiede nel fatto che a questa necessità di controllare strettamente le dinamiche politiche del paese ha fatto da contraltare una crescente disaffezione popolare verso il sistema rivoluzionario. Alle difficoltà economiche (in parte dovute alle sanzioni occidentali, che si sommano alla gestione corrotta e inefficiente dell’economia) e al malcontento per le restrizioni sociali tollerate con crescente fatica, si aggiunge infatti la delusione dovuta al fatto che nessuno dei candidati moderato-riformisti finora eletti è riuscito realmente a cambiare la situazione in Iran.

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Così, a fronte di un’azione sempre più drastica del Consiglio dei Guardiani (l’organo che approva o blocca le candidature) l’affluenza è in costante calo e ha toccato il minimo storico proprio in occasione delle ultime elezioni presidenziali. Qui risiede un’indicazione del fatto che in fondo le elezioni non sono completamente irrilevanti: il regime se ne serve per mostrare la legittimità del sistema iraniano. È per questo che il nezam ha dovuto fare i conti con un compromesso: permettere la candidatura di uno o più politici riformisti e allentare il controllo sul processo elettorale, oppure impedirla, mantenere la presa totale e vedere però crollare l’affluenza?

Pezeshkian, l’unico candidato riformista

La scelta è ricaduta sull’ammissione alla competizione di un candidato riformista non di primo piano come Pezeshkian, che ha ottenuto l’appoggio di Khatami e il sostegno attivo dell’ex ministro degli Esteri, Javad Zarif. Pezeshkian ha immediatamente confermato la totale devozione nei confronti di Khamenei – condizione necessaria, ma non sufficiente, per concorrere alle elezioni (numerosi ex ministri, anche del governo Raisi, sono stati squalificati) – ma facendosi affiancare da Zarif, uno dei protagonisti dell’accordo con gli americani del 2015, ha lasciato intendere che tenterebbe di perseguire una politica estera meno assertiva nei confronti dell’Occidente, Khamenei permettendo.

È però a livello interno che un’eventuale vittoria di Pezeshkian potrebbe influenzare la vita degli iraniani: mentre Raisi aveva rafforzato il ruolo e il potere della polizia religiosa, responsabile del controllo sull’osservanza delle norme sociali come quelle riguardo all’abbigliamento femminile, ciò che ultimamente aveva portato, per esempio, alla morte di Mahsa Amini, il candidato riformista si è distinto all’epoca delle manifestazioni per le sue critiche al tentativo della Repubblica Islamica di imporre la religione con la forza, un obiettivo definito «scientificamente impossibile».

La candidatura di Pezeshkian sarà sufficiente a spingere la maggior parte della popolazione delusa dalla politica iraniana a recarsi alle urne? Se così fosse, il candidato riformista potrebbe avere delle chances, almeno per arrivare al ballottaggio. Altrimenti il prossimo presidente sarà Qalibaf o, peggio, Jalili. Con un’avvertenza finale: anche quando Rouhani fu eletto, non era certo il favorito e pochi se l’aspettavano.

@fontana_claudio

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