
O’Connor, Carver, Kerouac: Dio salvi la letteratura americana
Se Antonio Spadaro ha rovistato nella letteratura americana fino a trovarsi a suo agio nell’eterna frontiera che l’attraversa è un po’ per quel sentimento di fedeltà alla realtà che ben sintetizzava G. K. Chesterton quando sosteneva che «la più grande poesia è un inventario». Spadaro, sacerdote gesuita, critico letterario e oggi direttore de La Civiltà Cattolica, da tempo masticava la narrativa italiana degli anni Novanta ricavandone una sorta di retrogusto amaro, la sensazione che quelle pagine non illuminassero di una luce nuova la realtà, ma al massimo l’interiorità degli autori. «Percepivo un eccesso di introspezione che mi lasciava insoddisfatto», spiega a Tempi. Del resto la sua avidità di lettore non poteva che aumentare dopo aver scoperto “l’ustionante” Flannery O’Connor (foto a fianco), l’autrice che ammoniva gli aspiranti colleghi dicendo che «la narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa».
Di polvere, vento, orizzonti lontanissimi e popoli fieri è invece densa l’America, si tratti delle terre del Sud protestante della scrittrice di Savannah, della casa in cui Emily Dickinson scriveva le sue lettere e le sue poesie senza mai uscire o delle strade interminabili lungo cui Jack Kerouac cercava se stesso. Il movimento è una cifra distintiva della letteratura americana anche quando la narrazione è immobile, perché l’anelito a scoprire nuove terre, a varcare la frontiera subendo il fascino e il timore di un orizzonte sconfinato, resta vivo anche (forse soprattutto) quando non c’è più nulla di nuovo da scoprire, nessuna porta da aprire o confine da varcare.
Capita così se la frontiera ti scorre nelle vene. Non per nulla Nelle vene d’America (Jaca Book, 335 pagine, 18 euro) è il titolo del libro in cui Spadaro ripropone al lettore quello che è stato il suo percorso dalla O’Connor a Walt Whitman passando per Raymond Carver, Jack Kerouac, Emily Dickinson, Sylvia Plath e molti altri. «L’esistenza della frontiera, ha scritto lo storico Frederick Jackson Turner, è ciò che ha reso irripetibile la storia americana. Ed è proprio la cifra che mi ha guidato», spiega Spadaro.
Esplorare la prateria dei luoghi e quella dell’anima ha una valenza oltre la critica letteraria, che pure in queste pagine non manca. Così Spadaro riconosce nell’incontro con gli autori che ha amato e conosciuto «come in una comunione dei santi» la possibilità per tutti di «non chiudersi dentro recinti puramente interiori, soggettivistici». E questo è un momento tutt’altro che casuale per aprire una finestra sulla dimensione ampia e popolare della letteratura americana. «Non ho mai guardato a questi autori in senso apologetico –riconosce Spadaro –, né ho fatto una selezione legata alla loro fede». Il volume accosta infatti autori dichiaratamente cattolici e altri provenienti da mondi lontanissimi. D’altronde c’è un altro gesuita che sta stupendo (e scandalizzando) con la sua solida ricerca di dialogo con chi non crede.
Guardando ai primi passi del pontificato di papa Francesco, padre Spadaro ricorda la lunga intervista concessa dal pontefice proprio alla sua rivista. È stato anche quello un momento per capire che «il Vangelo ha senso se si incarna nella storia. Una dinamica di lettura del Vangelo che non abbia direttamente a che fare con il dibattito della realtà contemporanea, anche a contatto con le prostitute e i pubblicani è un cristianesimo che espelle una perla preziosa». Il pensiero va all’immagine usata spesso dal pontefice secondo cui le nostre chiese devono tornare ad avere le porte aperte. «Molti intendono questa immagine come un bisogno della Chiesa di aprire le porte per fare entrare le persone; ma non dimentichiamo che prima ancora è il Vangelo che deve uscire da quelle porte».
Il volto sfigurato della piccola Mary
Nel capitolo dedicato a Flannery O’Connor e Spadaro racconta un episodio poco conosciuto, perché sfociato in uno scritto pubblicato molto tardi in italiano. Un giorno l’autrice viene raggiunta da una richiesta strana. Scrivere la storia di una ragazzina malata di tumore, accolta da una congregazione di suore all’età di tre anni e rimasta con loro fino alla morte, sopraggiunta a 12 anni. È la storia di Mary Ann, il viso deturpato da un tumore in una parte del volto e una gioia d’animo contagiosa. Alle suore che le chiedono di scrivere di lei Flannery risponde che devono essere loro stesse a raccontare quella storia di fatti («factual story»). Peccato che il risultato sia una narrazione orrenda, senza ritmo né mordente. La scrittrice decide comunque di scrivere la prefazione. “Colpa” della foto di Mary Ann che le suore le hanno inviato e che non smette di interrogarla.
«La penetrazione del mistero della vita di quella bambina – scrive Spadaro – permette alla scrittrice di aprirsi a intuizioni che rendono quel testo importantissimo. La O’Connor pone un parallelismo geniale tra lo scritto delle suore, così imperfetto, e il suo oggetto, cioè il volto imperfetto e sfigurato della piccola Mary Ann. Entrambi risultano ai suoi occhi non “deturpati”, “brutti”, come se la loro fosse una condizione oggettiva, data e chiusa in se stessa irrimediabilmente. No, essi sono “incompiuti”. (…) Mary Ann aveva messo a frutto la sua condizione, così il lettore è chiamato a mettere a frutto un testo imperfetto, che però contiene al suo interno un mistero profondo. Il testo letterario è veramente “compiuto” solo nel dialogo con la coscienza di un lettore, cioè fuori del testo stesso. Così, intuisce la O’Connor, il compimento di una vita umana, ancor più evidentemente incompiuta (“unfinished”) a causa di una grave malattia, è fuori di essa».
In quel compimento i limiti hanno un compito prezioso. Lo stesso papa Francesco (lo accenna Spadaro nella conclusione dell’intervista su Civiltà Cattolica) invita a «non maltrattare i propri limiti». «È un’espressione che usa in un vecchio scritto da gesuita», ricorda Spadaro facendo l’esempio di Jack Kerouac. L’autore di La strada provò a vivere una vita ascetica, fatta di meditazione e di astinenza dall’alcol e dal sesso. Si avvicinò anche a una sorta di buddismo, convinto che il mondo non fosse nulla. «Dall’altra parte c’era il cristianesimo, con il suo accento sul mondo reale. Ebbene, quello che mi ha sempre stupito studiandolo è che ad allontanare Kerouac dal buddismo fu proprio il peccato. Lui capì che era segnato dal peccato che sentiva nella sua carne. Quel peccato, direbbe la mia amica Flannery O’Connor, ha gettato le basi per la grazia. Al punto da fargli dire, a un certo punto della sua vita, “I am not a beatnik, I am a catholic”».
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